Marco Caldara
12 March 2018

La lezione che nessuno ha imparato

Djokovic, Nadal e Murray sono tre grandissimi campioni, ma stanno mostrando qualche limite nella gestione degli infortuni. Fra voglia di non fermarsi, desiderio di evitare le operazioni e volontà di bruciare le tappe, si trovano da mesi a fare i conti con gli stessi problemi. L'esempio vincente di Federer sembrava chiaro: meglio fermarsi un mese in più che un mese in meno, invece non l'ha seguito nessuno.
Per capire le condizioni attuali di Novak Djokovic basta vedere il suo volto per buona parte del match contro Taro Daniel, o ancor di più i suoi occhi all’uscita dal campo: spenti, tristi, pieni di dubbi. Il vero problema non è la sconfitta, ma quei tanti punti interrogativi che dalla sua testa si espandono al suo tennis, producendo errori e scelte sbagliate. Perplessità nate dal problema al gomito, ma alimentate da una gestione dell’infortunio che – da parte sua – poteva essere migliore. Col senno di poi la soluzione ce l’hanno in tasca tutti, ma è innegabile che “Nole” (e chi gli sta intorno) qualche errore l’abbia commesso. E stia continuando a commetterlo. Prima ha giocato per buona parte del 2017 imbottito di antidolorifici, sperando che il problema passasse, ma ha finito per aggravare l’infortunio ed è stato costretto a fermarsi. Poi ha deciso di non operarsi provando un trattamento conservativo, quindi una volta appurato che non ha funzionato ha tentato la via di un piccolo intervento, il mese scorso. Sembrava dovesse tenerlo fuori fino a maggio, invece ha bruciato le tappe e a sorpresa si è presentato a Indian Wells, raccogliendo un’inevitabile battuta d’arresto. Da fuori, e senza una cartella clinica in mano, è facile esprimere opinioni, e va ricordato che per certi infortuni capita di ricevere più di una diagnosi, come raccontato di recente da Svetlana Kuznetsova, che lo scorso novembre, prima di operarsi al polso ha visitato una manciata di specialisti e si è trovata davanti altrettante diagnosi differenti, quindi diversi modi di affrontare il problema. Tuttavia, bisogna anche fare i conti con la realtà dei fatti: nel caso di Djokovic dice che a otto mesi esatti dal ritiro di Wimbledon il problema non è ancora stato risolto, il futuro resta avvolto nel mistero e il tira e molla gioco-non gioco non ha fatto altro che aggiungere nella sua testa altre scorie negative, dopo quelle (già parecchie) accumulate con la crisi di risultati iniziata dopo il Roland Garros 2016.
TUTTI I PROBLEMI SONO DIVERSI, PERÒ…
Lo stesso discorso si può estendere anche a Rafael Nadal e Andy Murray. Il maiorchino ha appena portato a sette la lista dei ritiri consecutivi: tre a torneo iniziato e quattro a bocce ferme. “Rafa” non è mai stato un fenomeno nella gestione degli infortuni, e ci è ricascato anche stavolta. Si è fatto male al ginocchio prima di Bercy, ma ci è andato comunque per mettere in cassaforte il numero uno ATP di fine anno, poi ha provato a giocare le ATP Finals aggravando il problema, quindi si è infortunato di nuovo in Australia e il tentativo di rientrare ad Acapulco non ha funzionato, suggerendogli di saltare anche Indian Wells e Miami. Murray invece, dopo l’infortunio all’anca diventato insostenibile a Wimbledon ha provato a rientrare prima a New York e poi a Melbourne, ha giocato un paio di esibizioni e ha sperato fino all’ultimo di evitare l’operazione, ma è stato costretto ad andare sotto i ferri l’8 gennaio, sei mesi (buttati via) dopo lo stop. È vero che si tratta di sportivi che si nutrono di tennis, e fanno una fatica enorme a stare lontano dalla competizione, ma essere campioni significa anche sapersi gestire nella maniera ideale. Ne ha dato la prova perfetta Roger Federer, con la scelta di saltare la seconda metà del 2016 per rigenerare corpo e mente, e poi quella di evitare la stagione sulla terra battuta. Va sottolineato che il suo problema alla schiena non era un vero e proprio infortunio, tanto che è stato lui il primo ad ammettere che lo stop non era strettamente necessario, eppure si è fermato comunque. Idem per la rinuncia alla terra: aveva appena vinto Melbourne, Indian Wells e Miami, e sembrava di nuovo imbattibile, ma invece di lasciarsi ingolosire non ha voluto azzardare. Certo, non tutti i problemi sono uguali, e ciò che funziona per Federer non è detto che funzioni per Nadal, Djokovic o Murray, ma il risultato è palese: Roger ha fatto le cose con estrema calma e prendensosi le giuste precauzioni, e a 36 anni, mentre gli altri si interrogano su come muoversi, è tornato numero uno del mondo. Tutti lo prendono come esempio per stile, eleganza, classe, talento e chi più ne ha più ne metta, ma stavolta ha dato una lezione ancora più importante. Il problema è che fra i suoi diretti concorrenti non l’ha imparata nessuno.
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