Rafael Nadal, El Matador

Quando il nostro direttore è andato a casa di un 17enne Rafael Nadal. Lo zio-coach si faceva ancora chiamare "Antonio" e la grande promessa del tennis era Richard Gasquet. Però si capiva che questo ragazzo avrebbe sfondato. "Non ti folgora, ma ti conquista piano piano".

Non era mica facile, sprovvisto di risorse finanziarie, riuscire a portarla per il ponte pasquale in una bella località, lusso e comfort come se piovesse. Però meritava. Il colpo di genio arrivò col torneo di Barletta, dove Rafael Nadal vinse in finale su Albert Portas. Corsi nell'ufficio dell'allora direttore di Tennis Italiano, Giorgio Pomelli, con spietata sicurezza: "Dobbiamo assolutamente fare un servizio su questo ragazzo, il futuro numero uno del mondo. Poi ha una storia pazzesca", aggiunsi senza conoscere alcun dettaglio, giusto per sembrare più convincente. La risposta era sempre la stessa: "Ottima idea, purché non ci costi nulla". Mossi le mie conoscenze alla Leading Hotel of the World e scovai un hotel straordinario: La Residencia, nel bellissimo borgo di Deia. Aveva anche due campi da tennis e il maestro, Shayne Tabb, insegnava pure a Mister Virgin, che aveva casa da quelle parti. Mi accolsero entusiasti. La settimana trascorse... beh... mica male. L'ultimo giorno mi alzai presto: "Vado in 'sta cittadina, Manacor - annunciai -. Speriamo che questo ragazzino si alleni presto. Non pranzare sola, per l'una sono di nuovo qui". Arrivai al Tenis Club di Manacor, dall'altra parte dell'isola, alle 10 in punto. Dal campo arrivavano grida belluine: c'era un ragazzino sdraiato per terra, sfinito. Era Tomeu Salva Vidal e per fortuna era il miglior amico dell'altro. Dopo altre due ore di allenamento e match, finalmente una pausa. Il ragazzino e il suo coach si avvicinarono: "Salve, sono Antonio, lo zio". "Salve, sono Rafael. Rafael Nadal". Tornai a Deia che era buio pesto. Ecco il racconto di quella giornata, apparsa sul numero di maggio 2003 di Tennis Italiano.
 

Se non lo avessimo visto abbronzato, in perfetta forma e in splendida compagnia, avremmo giurato che Thomas Muster si era reincarnato nelle vesti di un moretto spagnolo di 17 anni. Rafael Nadal-Parera pare davvero una riuscita fotocopia del campione austriaco: grande temperamento, rotazioni esasperate, un rovescio solido ancorché non penetrante, volée scolastiche, un servizio nato come semplice rimessa in gioco, ma destinato a diventare insidioso e un diritto che al prodigio spagnolo pare perfino camminare di più. Fin qui una perfetta copia tecnica; il problema è che se il tennis fosse solo una questione tecnica, Muster non sarebbe mai diventato un numero uno. Beninteso, numero uno d’Austria. La differenza Muster la faceva grazie a una preparazione atletica da maratoneta e una forza psicologica che volentieri un Freud avrebbe studiato e preso a modello. Ora, come scoprire se questo ragazzotto spagnolo di 17 anni può già vantare una tale attitudine mentale? Elementare Watson: basterebbe prenderlo, buttarlo sotto una macchina guidata da un ubriaco, spezzargli una gamba, farlo allenare seduto su una sedia con la gamba ingessata e vedere se un anno dopo è capace di tornare più forte e combattivo di prima. Muster c’è riuscito.

Ora, concediamo a Nadal di toccarsi davanti a tale gufata, tuttavia è da tale percezione che passano le chance di vederlo arrivare nel Gotha del tennis mondiale. Perché tecnicamente non sembra baciato dal Dio con la racchetta. A differenza di un Richard Gasquet per esempio (l’altro enfant prodige del tennis pro), non ti entusiasma per lo stile, ma per quella cattiveria tipica di chi vuole arrivare. A qualsiasi costo. Siamo quindi andati a trovarlo direttamente a casa sua per scoprire da vicino il nuovo fenomeno del tennis mondiale. Uno capace di entrare tra i top 100 a 16 anni, primo a riuscirci dal 1988 quando l’impresa fu realizzata da Michael Chang. Uno che a 17 ha già battuto due vincitori di titoli dello Slam, Carlos Moya e Albert Costa. E non in allenamento: in tornei Masters Series.
L’isola di Maiorca (600.000 abitanti) ha già dato natali tennistici importanti, se sulle spiagge di Palma è cresciuto Carlos Moya. Rafael abita a Manacor, una quarantina di chilometri lontano dal mare. Lo incontriamo al tennis club, luogo che ormai in città ha del sacro, anche se le strutture sono quelle del tipico circolo di provincia: un campo centrale, quattro laterali, uno spazio per l’atletica con muro di palleggio e una piccola club house. Il nostro lo troviamo sul campo 4 mentre picchia duro contro un giovane spilungone. Non molla una palla che sia una, quasi si trattasse della finale a Roland Garros e non di un semplice allenamento contro un amico numero mille e passa del ranking Atp. Al fianco lo zio-coach, Antonio Nadal. “E’ una bestia. Nel senso buono, s’intende. E’ un gran lavoratore e soprattutto ascolta molto, qualità tipica dei grandi giocatori e delle persone intelligenti”.

Dalla sua, la fortuna di avere un Dna sportivo da far invidia. Infatti un altro zio, Miguel Angel, è stato per anni titolare della Nazionale spagnola di calcio, tanto da rischiare di trascinar anche Rafael nel mondo del pallone piuttosto che in quello della pallina. “Giocavo abbastanza bene – ricorda Rafael – e me lo diceva uno che in carriera ha marcato Maradona e Platini”. Poi però, il tennis è piombato nella sua vita e non se ne è più andato. Ricorda Tomeu Salva Vidal, il suo migliore amico: “Nei corsi estivi vedevo sempre questo ragazzino di 6-7 anni che picchiava la pallina quasi volesse farle male. Si vedeva che sarebbe diventato qualcuno. Aveva troppa fame di successo. Però, garantisco io per lui, non cambierà mai il suo atteggiamento. Quando avrà vinto Roland Garros resterà lo stesso di quando vinse il campionato delle Baleari. Certo, già adesso la gente si pone nei suoi confronti in maniera differente. Ho decine di ragazzine che mi chiedono di presentarglielo, anche se lui è ancora piuttosto timido”.
Sarà, ma a vederlo sul campo non lo si direbbe. Ricorda Pat Cash, uno che in salotto tiene il trofeo di Wimbledon: “Tre anni fa dovevo giocare un’esibizione a Palma di Maiorca con Becker; all’ultimo istante Boris viene negli spogliatoi e mi dice che ha mal di schiena e che non avrebbe giocato. E chi mi mettono di fronte? Un ragazzino del luogo di 14 anni! C’era lo stadio pieno e io dovevo giocare contro un ragazzino. Mi chiedevo come avrei fatto a fargli fare qualche game senza che il pubblico se ne accorgesse. Come andò a finire? Persi in due set facili. Ovviamente quel ragazzino si chiamava Rafael Nadal”.

Incoscienza giovanile? Avversario troppo disponibile? Può essere: meglio quindi affidarsi ai tornei veri, quelli ATP. L’esordio è avvenuto a 15 anni a casa sua grazie a una wild card ricevuto per l’ormai defunto torneo di Maiorca. Si giocava nell’arena cittadina e lui, quasi fosse un navigato toreador, fece a pezzi il malcapitato Ramon Delgado. Certo, non un fenomeno, ma pur sempre un top 100 mondiale. Fu a dire il vero, l’unico exploit della stagione, ma solo perché preferì dedicarsi a un sano lavoro di perfezionamento tecnico e fisico. Fa comunque piacere notare che non mancò il torneo juniores di Wimbledon: Un segno di rispetto verso la tradizione del nostro sport che spagnoli ben più esperti e (finora) vittoriosi di lui non hanno mai mostrato. Perse nell’occasione dall’algerino Lamine Ouahab in semifinale, dimostrando una certa capacità di adattamento alla superficie, per nulla tipica degli arrotini iberici. “Se lo vedi giocare sul rosso – spiega lo zio-coach Antonio – non diresti mai che ha delle chance anche sul rapido. Ma lui è un trasformista: sulla terra gioca di pressione, a sfiancare l’avversario. Poi, quando ha disputato dei tornei challenger sul veloce indoor, ha sempre giocato con grande aggressività e scegliendo spesso la via della rete. Ok, non parlo di serve&volley perché non ha il serve, però non chiamatelo fondocampista, perché sa mutare la sua tattica a seconda delle condizioni”.
Vien da pensare a chissà quali esercizi deve essere ricorso quel diavolo dello zio-coach per fargli acquisire tali capacità. Lo zio-coach invece ci fa capire che a tennis non ci si prepara tutti nello stesso modo: “Mai fatto esercizi in vita nostra. Quelli vanno bene per chi gioca la domenica nei club. Chi vuole fare il professionista deve invece imparare a vivere di situazioni, perché il tennis è uno sport di situazioni. Non solo bisogna sapersi adattare alle varie superfici, ma anche a ogni singolo colpo. E più un atleta ne prova, più migliora. Il famoso incrociato-incrociato-lungolinea serve solo a imparare a giocare incrociato-incrociato-lungolinea. Ma Rafael non deve imparare a fare un esercizio, deve imparare a vincere un match di tennis che è una cosa ben più complicata. Quindi si scambia molto da fondo e si verifica la sua capacità di adattamento alla situazione. A giocare con i piedi ben piantati per terra e la palla a mezza altezza son capaci tutti. I fenomeni sono quelli che giocano bene anche quando sono messi male”. Per la verità un esercizio pure Antonio se lo ricorda “Da quando era piccolissimo gli lancio delle palle corte e molli e poi gli ripeto ‘colpisci più forte che puoi’. E’ così che è diventato aggressivo”.

Chissà che ne pensa papà Agassi che aveva studiato macchine lanciapalle avveniristiche per farlo allenare. Chissà che ne pensa Larri Passos che spesso nei pre-match fa giocare a Guga Kuerten “il semplice incrociato-incrociato-lungolinea”. Eppure i risultati sembrano dare ragione alla famiglia Nadal. “Beninteso – prosegue lo zio-coach – non è che trascuriamo la tecnica, tutt’altro. Prendiamo il servizio, il colpo più debole di Rafael. Sbaglia ancora l’estensione delle gambe, però ci lavora duro”. E via a raccogliere e scaricare a tutta forza centocinquanta palline cercando di migliorarla, questa benedetta estensione delle gambe. Con risultati accettabili: “A Monte Carlo contro Coria ha servito a 193 km/h. L’importante è che si accorga che avere un servizio potente è un’esigenza, non una semplice aggiunta. Al resto ci pensa il suo orgoglio che lo obbliga a migliorarsi”.
Nel frattempo, mentre Rafael supera la seconda ora di pallate, si affaccia Joan Forcades, il preparatore atletico, una figura professionale che, a detta anche dello zio-coach, riveste un’importanza speciale. “Rafael deve ringraziare la natura perché ha doti straordinarie di suo. È una questione genetica. Non parlo solo dello zio calciatore, ma anche del resto della famiglia. Guardate Antonio: non è un ex campione, ma ha una forza fisica pazzesca”. Joan si affida (chi l’avrebbe mai immaginato?) all’esempio italiano. Sicuro Joan che sia una buona scelta? “Certo, dal punto di vista della preparazione atletica l’Italia è molto avanti. Ovviamente non parlo del tennis, ma di preparazione atletica in generale. Io mi ispiro a Carmelo Bosco e spesso studio le metodologie di allenamento italiane. Rafael è un allievo modello perché ha una soglia del dolore molto alta”. Cioè sa soffrire. Infatti, finita la terza ora di pallate (“Siamo impegnati coi tornei, quindi facciamo dei semplici richiami” dice lo zio-coach!), Rafael si presenta sul campo di atletica. “Curiamo soprattutto la coordinazione” dice Forcades.

Eccolo mentre si esercita con una “scaletta” appoggiata al terreno. E se la rapidità di piedi conta qualcosa nel tennis moderno, Nadal rischia di far paura. “Facciamo molta attenzione alla preparazione fisica. Il problema è non separare questo segmento da tutto il resto. Non si tratta di prendere Rafael e in due anni fargli correre i 100 metri quattro decimi più veloce. Si tratta, soprattutto considerando che ha solo 17 anni, di farlo crescere senza scompensi coordinativi. Però siamo ottimisti: Carlos Moya per esempio, ha avuto più problemi nella crescita”. Ed eccolo che finalmente compare il nome del bel Carlito. ”Ci siamo allenati spesso insieme. Lui per me è un modello e uno stimolo: se sei un ragazzino e hai la possibilità di allenarti con un simile campione, i vantaggi sono comprensibili, no?”. Ha le idee chiare Rafael, tanto rispetto, ma nessun timore. 
Ad Amburgo è andato in scena il primo scontro ufficiale tra i due e indovinate un po’ chi lo ha vinto? Esatto, Rafael. E ad ascoltare le sue dichiarazioni post-match non si direbbe essere lui il 17enne della coppia. “Mi spiaceva vincere. Si vedeva che era lui il più teso e quando sono arrivato a un passo dalla vittoria, quasi mi è venuta voglia di perdere”. Quasi. Perché la parola sconfitta non è esattamente tra le più frequenti nel vocabolario di Nadal che quest’anno, in cinque mesi, è passato dal numero 200 Atp al numero 74, ha superato le quali in due Masters Series (Monte Carlo e Amburgo) e battuto campioni del calibro di Albert Costa e Carlos Moya. Insomma, se questo ragazzino non arriverà presto a puntare ai top 10, vuol dire che è meglio abbandonare qualsiasi pronostico. Però Nadal ci arriverà e non da solo, ma in degna compagnia. Quella dell’altro enfant prodige di 17 anni, quel Richard Gasquet che fino all’inizio di quest’anno era considerato il vero fenomeno. Poi è esploso Rafael e Gasquet è passato in secondo piano. Una piccola rivincita di quell’unico confronto da junior che ha visto Gasquet prevalere. “Un match combattuto, vinse di un niente. Però non sono quelli i match che contano.

Già, saranno quelli che giocheranno nel prossimo futuro, sui palcoscenici più gloriosi. Due tipi che fra loro non potrebbero essere più diversi. Il moro contro il biondo, la forza contro il talento, il fisico contro il tocco, la bagarre contro lo stile, la fucilata di diritto contro la perfezione del rovescio. Gasquet è il colpo di fulmine, Nadal ti conquista piano piano. Non c’è dubbio che il futuro appartiene a questi due giovani talenti; più difficile stabilire chi sarà il prim’attore. Il cuore dice Gasquet, ma la ragione Nadal. E nel tennis del terzo millennio si vince più con la testa che con il cuore.
© RIPRODUZIONE RISERVATA