Un anno e mezzo fa, un'intervista al New York Times del neopresidente ITF Dave Haggerty aveva acceso le speranze di chi si interessa al doping nel tennis. L'americano aveva promesso maggiore trasparenza nei casi di doping, in modo da evitare speculazioni o sospetti su giocatori che interrompono improvvisamente la loro attività. E allora, apprendendo il caso di Thomaz Bellucci, vien da pensare “Ma allora ci aveva preso in giro?”. Lo scorso 18 luglio, il brasiliano si è sottoposto a un test antidoping durante il torneo ATP di Bastad, in Svezia, e gli hanno trovato 30 nanogrammi di idroclorotiazide, una sostanza coprente. Il processo sportivo ha fatto il suo corso e si è concluso con una condanna di cinque mesi, scattata lo scorso 1 settembre. Significa che il brasiliano (ex n.21 ATP, oggi è in 112esima posizione) potrà tornare a giocare il 1 febbraio, in tempo per la “Golden Swing”, la stagione dei tornei sudamericani (Quito, Buenos Aires e le tappe casalinghe di Rio de Janeiro e San Paolo). La notizia, tuttavia, diventa di dominio pubblico solo oggi, con una sentenza di 10 pagine firmata da Stuart Miller, a capo del programma antidoping nel tennis, quando Bellucci ha già scontato l'80% della pena. E allora dove sono finite le promesse di trasparenza? A ben vedere, c'è una scappatoia regolamentare che ha consentito tutto questo. Secondo il programma antidoping, soltanto i casi di sospensioni obbligatorie o volontarie devono essere resi pubblici. Quando Bellucci ha saputo della positività, non ha accettato la sospensione provvisoria e quindi si è garantito la riservatezza. In casi come questi, la storia diventa pubblica soltanto al momento della sentenza. È ridicolo, perché l'ultima partita del brasiliano risale allo Us Open: significa che ha rifiutato la sospensione provvisoria, ma di fatto se la è autoimposta. Una bella mossa per avere meno noie, in tutti i senti. D'altra parte, il regolamento glielo consente.