“Gli americani hanno costruito Flushing Meadows in nove mesi. Lo stesso tempo che in Italia serve per passare una pratica dalla scrivania all'altra”. Alla vigilia dello Us Open 2018, una delle frasi più famose di Rino Tommasi torna di moda. L'attuale sede dello Us Open è stata inaugurata nel 1978 e, quarant'anni dopo, vive l'ultimo tassello di un processo di rinnovamento durato cinque anni e costato 500 milioni di dollari. Ma la USTA, col suo mega-fatturato, se lo può permettere. L'ultimo impianto ad essere inaugurato è il nuovo Louis Armstrong Stadium. Cerimonia, taglio del nastro, esibizione con John McEnroe, Patrick McEnroe, Michael Chang e James Blake e via, subito in campo alcuni match delle qualificazioni. Realizzato dallo studio di architettura Rossetti, lo stesso che aveva trovato il modo di coprire l'Arthur Ashe senza che le tribune sprofondassero, si presenta bello, suggestivo e funzionale. Fino allo scorso anno, circa l'85% degli spettatori entrava dal lato est: per questo, gli organizzatori hanno cercato un sistema per accoglierli in modo trionfale. Non poteva esserci modo migliore che mostrare uno stadio da 14.061 posti, realizzato al posto del vecchio mega impianto, costruito nel 1964 prima di essere adibito al tennis quattordici anni dopo. È il secondo stadio dotato di tetto retrattile, pensato insieme al progetto e dunque non posticcio come quello dell'Ashe. La copertura è ottagonale proprio come lo stadio, rispettando una forma strutturale molto in voga negli Stati Uniti. Il tetto si apre e chiude in 7 minuti e ha una particolarità: quando è chiuso, lascia comunque entrare il 73% dell'energia solare.