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Londra, 9 luglio 2001. Il giorno del miracolo

Forse non è stata la più grande impresa nella storia del tennis. Di sicuro, la più emozionante. Il 9 luglio del 2001, in un lunedì pieno di colori, Goran Ivanisevic vinceva Wimbledon fuori tempo massimo, alla quarta finale, al termine di un torneo da fiaba. "Cavallo Pazzo" ha riguardato quella partita insieme a noi.
«Certo che la ricordo. La fotografia e anche la faccia. Ero al di là del dispiacere. Ero devastato, era finito tutto». Goran Ivanisevic è più muscolato e vigoroso oggi, a 45 anni, che non in quell’immagine di gioventù, anno 1998, in cui somigliava a un Cristo schiodato dalla croce per un ultimo sberleffo. Accanto a lui, “as usual, Pete”, come ripeteva a mo’ di cantilena Andre Agassi, nella sua iper-citata biografia resa letteraria da J. R. Moehringer; come sempre, Pete. Come nella finale del 1994, una sparatoria durata due tie-break e il tempo di liofilizzarsi (6-0) nel terzo set. Come nel 1995, «e quel match non se lo ricorda nessuno perché era una semifinale: persi al quinto ma dovevo vincere, giocavo meglio di Sampras. Avessi vinto, in finale avrei trovato Becker e…». Lo sguardo furbo di Goran termina la frase senza bisogno di parole. Goran non ama riguardare i filmati dei suoi successi, anche se rammenta tutto: palle break, risposte steccate, dove ha servito la seconda palla. «Quando giocavo non esisteva YouTube. Però quella lì l’ho cercata, e l’ho riguardata non so quante volte». Non la nomina neanche, perché non è una partita ma una cosa, una massa di ricordi dolorosi: “that one”, quella lì. «Sono passati vent’anni e, ancora, non riesco a capire come possa aver perso la finale del ‘98. Due set point per andare avanti due set a zero – la voce scende di un’ottava, scuote il testone capelluto – e ho perso. Non ci posso credere». Noi, però, siamo qui per un’altra storia. Dicono sia capitata tre anni dopo, nel 2001, è trascorso un tempo sufficiente per dubitare di una vicenda che sfida la miscredenza. Dopo il terzo flop in finale a Wimbledon – il primo, nel 1992 contro Agassi, si era risolto in un una autodissoluzione, con due doppi falli e una volée da asilo nido sul 4-5 del quinto set – Goran Ivanisevic era una specie di ex giocatore. Trent’anni, una spalla in fiamme, classifica da nascondersi dietro la lavagna (125) e un’iscrizione al Queen’s fatta così, come ci si segna alla gita scolastica, per inerzia. Di lì a poco, non avrebbe più avuto ranking per giocare nel Tour e se ne sarebbe andato dal tennis, in penombra. Ben che gli fosse andata, lo avrebbero ricordato come uno dei più forti a non aver mai vinto niente di importante. Incontrò Cristiano Caratti a l primo turno le buscò, 6-3 6-4. «Lui non era male, sull’erba, e poi su quei campi non ho mai giocato molto bene, è un’erba diversa. Quel giorno non sapevo ancora se mi avrebbero dato una wild card a Wimbledon. Quando persi, stavo per tornarmene a casa. Anche perché mi dicevo: se questi per caso hanno guardato la partita e avevano una mezza idea di invitarmi, sicuramente gliel’ho fatta passare».

BENEDETTA PIOGGIA
Invece l’invito arrivò: era la wild card, molto british, dell’addio. Il premio alla curriculum. «Dopo il Queen’s giocai altrove, persi contro Hewitt a Hertogenbosch. Avevo male alla spalla, erano due anni che non sentivo più quel “pam” quando servivo la prima palla. Ho sempre usato la Head Prestige, chi la conosce sa che ha un suono particolare: lo avevo dimenticato. Arrivato a Wimbledon, in allenamento, mi pare fosse il sabato, iniziai a provare la prima di servizio. Dal nulla, non so come, ritrovai quella sensazione». Passò il primo, il secondo, il terzo turno: Jonsson, Moya, Roddick. «Tutti pensavano che avrei perso al turno successivo». Tranne uno, ma non uno a caso: Pat Cash, il pirata del serve&volley che chiuse la carriera con un solo Slam, ma quello giusto, Wimbledon. «Proprio lui: Cash mi vide giocare e si espose: “Ragazzi, occhio a Goran. Avrà trent’anni, sarà fuori dai primi cento, ma sta giocando come ai bei tempi. E sa come si fa negli Slam”». Perché gli Slam hanno un altro respiro, giochi un giorno sì e uno no, durano il doppio, rischi il quinto set, puoi gestire la partita e il torneo con margini di manovra altrove impensabili. Ma se sei allenato solo per il giro di campo, alla seconda settimana stramazzi. Se non morto-che-cammina, come i colleghi presero a chiamare Sampras prima dell’ultima impresa agli Us Open 2002, Goran era visto come un souvenir di campione. Un’automobile con la stessa carrozzeria di sempre e, sotto il cofano, un motore frusto. «Tanto che, quando vinsi contro Moya, che era uno dei primi al mondo anche se sull’erba faticava, gli spagnoli lo prendevano in giro: ma come hai fatto, gli chiedevano, a perdere contro un cadavere?» È che, dallo scollinamento degli ottavi di finale, Goran iniziò a percepire le tracce dell’intervento divino contro i cavalieri della Regina: «Contro Rusedski sapevo di non poter perdere, come capitava spesso contro di lui. Poi lui era nervosissimo, aveva chiesto di non giocare sul campo 1 e, vai a capire perché visto che giocava per la Gran Bretagna, lo misero proprio sul campo 1. In semifinale, invece, mi toccò Tim Henman e nessuno mi dava un centesimo. Per la prima volta Tim si giocava un posto in finale senza dover affrontare Sampras. Lui era un altro che aveva un conto aperto con Wimbledon e con Pete, quello lì. Lessi i giornali inglesi: Tim è già in finale, dicevano. Forse avevano ragione: vinsi il primo set, persi malamente il tie-break del secondo e lui volò via: 6-0 nel terzo, palla del 3-1 nel quarto. Onestamente, credevo fosse finita. Anzi: era finita. Solo che, nel momento stesso in cui lo pensai, prese a piovere. Quando lasciammo il campo, lo guardai: Tim era nero. Lo vedevo, che non si capacitava: no, non adesso, non la pioggia. Negli spogliatoi io ero sereno, rilassato avevo le gambe allungate sulla panca; lui si stava consumando. Quando si presentò il supervisor, dopo un bel po’, e ci disse di andarcene a casa perché la partita l’avremmo finita il giorno successivo, ricordo benissimo ciò che pensai: è fatta, non la perdo più».
OLTRE IL DOLORE
Se Wimbledon avesse avuto il tetto, insomma, non saremmo qui a raccontare un’impresa tra le più folli nella storia del tennis. «Bella domanda. Forse no. O forse sì: per chiudere il tetto e asciugare il campo, più o meno una mezz’ora ci vuole. È sempre una pausa. Magari lui si sarebbe innervosito ugualmente, magari avrebbe avuto tempo per pensare alla finale, che era così vicina. Dopo la seconda sospensione, la domenica, sbagliò un paio di volée per lui facilissime. Vinsi e realizzai che, per la prima volta, avrei giocato una finale di Wimbledon non di domenica». Col senno di poi avrebbe saputo altro: per esempio che, dal 2002, i mastri inglesi avrebbero tirato il freno a leva sui campi e reso l’erba una roba giocabile anche da fondocampo, un misto tra terra ed erba, una terba, che non a caso regalò la finale Hewitt-Nalbandian nel 2002: «L’erba di oggi è uno scherzo. Ho giocato l’evento senior qualche volta e non mi ci ritrovo, è lenta, la palla salta alta. Ci credo, che i giocatori di oggi non se la sentono di andare a rete. Mi hanno fatto vedere una statistica recente: si sono giocati scambi più lunghi a Wimbledon che non al Roland Garros. Da pazzi». La finale di Wimbledon 2001 è registrata agli atti con il codice 6-3 3-6 6-3 2-6 9-7, che dice molto e quasi nulla del surreale di cui si circondò: un ex pretendente che ha perso i gradi, la gente che tifa e sbraita come se Wimbledon si fosse travestito da Wembley; di là dalla rete, l’australiano Pat Rafter pronto per vendicare lo scippo del 2000: «Credo che lui abbia avuto fin troppo tempo per pensare a tutto. Rimase fermo due giorni. Io invece giocai la domenica l’ultimo pezzo di partita contro Henman e la mattina dopo, a mezzogiorno, il primo punto della finale. La mia energia non era scesa, la sua sì: infatti iniziò lentamente, gli feci subito il break. Il pubblico era incredibile, sembrava quello di una partita di calcio tra Australia e Croazia: facevano un tifo diverso dal solito, urlavano, c’erano i cori. La finale di lunedì non era stata preventivata e i biglietti erano in vendita libera. Avevo un male dell’accidente, il medico mi aveva dato un antidolorifico ma io scesi in campo come fosse la mia ultima partita in assoluto, con un’idea in testa: a meno che la spalla non mi cada per terra, giocherò e tirerò tutto quello che posso, fino alla fine».
UN EPILOGO DA FILM
Parte il filmato su YouTube, Goran si sistema il ciuffo e gli occhi luccicano di soddisfazione: «Ah sì, il quarto set. Impazzii ma per poco, eh, un paio di minuti. Non c’era ancora occhio di falco, feci un ace di seconda su un punto importante e Jorge Dias (il giudice di sedia, ndA), chiamò l’overrule». Il microfono era aperto e Goran esplose: “Era il mio fottuto punto, tu me l’hai tolto e ora perdo la battuta!” Il solito Goran, Cavallo Pazzo, stava scialacquando un altro Wimbledon, l’ultimo. Domanda necessaria: come è stato possibile imporsi di non perdere il senno, di non finire come tutte le altre volte? «Mi sono seduto e mi sono fatto un discorso semplice: ok, non è il momento di pensare a quello che è successo. Stai per giocare il set più importante della tua vita. Se ti deve battere, fa’ che sia lui a vincere e non tu a batterti da solo. Che lo so, è facile a dirsi e difficile a farsi, ma non c’era alternativa. Quel set valeva tutta la carriera, non potevo buttarlo via ancor prima di giocarlo». Non lo fece. Ci provò: primo match point sull’8-7 al quinto. Doppio fallo. Secondo match point: doppio fallo. Li rivede, sogghigna. «Eh. Non riuscivo a mettere quella dannata prima ma non volevo rallentare col braccio, sennò era ancora peggio. Ogni volta cercavo di chiudere con un servizio vincente e non entrava mai. Mio padre era nel box. Era cardiopatico da anni, secondo me gliel’avevo fatta venire io la malattia a forza di dispiaceri e partite gettate via. Il dottore gli aveva consigliato di non assistere alla finale, e io gli faccio due doppi falli sul match point in finale a Wimbledon». Terza palla match: stavolta la seconda entra. Lob vincente di Rafter, pari. E sulla parità, torna la manina di Dio. Rafter ha il campo aperto per un un passante di rovescio facile facile, Goran è troppo lontano e non può difendere la rete. Riguarda la traiettoria, scuote il capo: «Lui non si aspettava che io giocassi così male quella volée e non era pronto per giocare il passante. Bastava metterla di là». Invece no, lo slice atterra in corridoio. Il Goran del filmato alza lo sguardo al cielo e prega. Forse parla con Dio, forse un po’ più in basso. «Tirai su gli occhi e vidi Niki Pilic che faceva segno di rallentare, di calmarmi. Ma come potevo farlo? Se rallentavo, perdevo il ritmo. Continuavo a non mettere la prima, mirai al centro anche sul quarto match point. Non mi piaceva il suo chip di rovescio, mi faceva giocare male la volée. Gli cercai apposta il dritto».
È finita. La prima wild card della storia a vincere uno Slam.

"ANCHE LA PIOGGIA TIFAVA PER ME"
Il filmato scorre con l’abbraccio, Goran è una fontana, Rafter lo consola spettinandolo, fa tenerezza pure lui: «Pat è un bravo ragazzo. Mi è spiaciuto, anche perché la finale del 2000 avrebbe potuto vincerla, dico quella contro that guy, Sampras. Però mi consola pensare che lui si è vinto due Us Open, ha avuto la sua parte. Io lo dovevo prendere, quel titolo di Wimbledon. Penso sia onesto». Ivanisevic ha il sorriso puerile e compiaciuto di chi si è goduto quell’unica volta in cui fu campione e basta; non talento imbizzarrito dalla carriera alla Leconte, numeri su numeri ma zero grandi titoli. «Le finali non le ricorda nessuno. Solo le vittorie, e quello era il mio anno: anche la pioggia tifava per me. Wimbledon era perfetto, perché sulla terra stavo dietro e c’era gente più forte di me da fondocampo, sul verde e indoor attaccavo, mentre sul cemento non sapevo mai cosa fare e sbagliavo le scelte: un anno, agli Us Open, avrei dovuto battere that guy, che aveva salvato match point a Corretja e vomitava in campo. In finale avrei trovato Chang e…» Torna l’espressione riservata al Becker del 1995. «Sampras. Ha ucciso anche me that guy, mica solo Agassi. Chang in finale agli Us Open… Voglio dire: grazie, ho vinto, ciao». Non nel 2001. Quella volta, Sampras perse negli ottavi contro un ragazzino col naso a patata, Roger Federer. «Ma non mi importava più, a un certo punto, chi avrei incontrato. Quel torneo era diventato mio. Anche contro Federer».
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