Forse la ebbe anche la sfortuna di avere davanti tre campioni negli stessi anni: lei è stato 27 al mondo, oggi sarebbe il migliore degli italiani.
«Tutti dicono 27 al mondo ma c’è un vecchio
Tennis Weekly, la pubblicazione che l’Atp stampava tutte le settimane, in cui la classifica diceva 19. Bisognerebbe andare a spulciare gli archivi dell’anno 1977: a me non cambia nulla, però dire che sono stato 30 al mondo mi dà un po’ fastidio perché non è così. Certo, se giocassi adesso e rimanessi, come ho fatto allora, per sette-otto anni nei primi trenta del mondo, sarei milionario. Invece devo alzarmi alle sette, macché, alle sei e mezza esco di casa per andare a lavorare. Abito a Trevignano, sul lago di Bracciano; al mattino magari vado a Roma, faccio giocare qualche amico, do qualche lezione. E sono il supervisore della scuola dove lavorano i miei due figli: un agriturismo con campi da tennis a Sutri, in provincia di Viterbo, si chiama Gentile, è un posto molto carino. Non ho rimpianti, però: il tennis mi ha dato tanto e, in realtà, non mi interesserebbe neanche avere un sacco di soldi. Solo un po’, per stare più tranquillo e rallentare il ritmo».
Il tennis di oggi le piace?
«Tutti gli sport sono cambiati. Oggi è esasperato, estremamente fisico, ma guardandolo ci sono sfumature che gli intenditori possono ancora apprezzare. Una volta, era tutto più rustico, più umano».
Con chi si sente di più, dei suoi vecchi compagni?
«Capita che ci mangiamo un piatto insieme a Roma. Gioco a golf con Panatta e Barazzutti, ogni tanto. Sono come nel tennis: Adriano fa un colpo eccezionale, poi una
flappa (quando si colpisce il terreno prima della pallina, nda). Corrado è preciso: primo colpo nel
fairway, poi si avvicina, poi la palla in buca. Regolare. Tra i due, comunque, il più forte sono io».
Lei non giocò se non a risultato acquisito, ma è grazie a lei che l’Italia disputò la finale a Santiago del Cile: ha un ricordo più vivo degli altri, pensando a quel weekend?
«No. Non per dire, ma allora la finale o la semi la giocavamo quasi tutti gli anni. Per cui non capimmo immediatamente la portata dell’evento, a parte la gioia naturale di tutti. E poi in Cile eravamo partiti con le mogli e i figli: se non ricordo male, quella sera facemmo cena, aprimmo una bottiglia e poi tutti a nanna. Non pensavamo certo che quel giorno avrebbe cambiato la storia del tennis italiano, ecco».
La sua, di vita, sarebbe cambiata se quella volèe sul set point nel quarto set della finale di Roma 1977 fosse passata, invece di morire sul nastro?
«Che sfortuna. Se avessi vinto quel punto il torneo era mio, perché Gerulaitis era morto: nel quinto set, sarebbe crollato. Però uno deve anche pensare che se l’è giocata, la finale, quando magari poteva perdere al primo turno. In fondo anche Adriano ha vinto Roma e Parigi insieme, annullando match point nei primi turni in tutti e due i tornei. Se avesse perso quei due punti…»
Solo che lui ha vinto.
«Eh. La domenica il Signore si riposa: si vede che, quella domenica, s’era proprio addormentato».
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Intervista pubblicata su L’Unità di domenica 18 dicembre 2016