La tragedia di Kobe Bryant ha scioccato tutti. Ci ho ripensato, ascoltando il commovente ricordo di Michael Jordan, che con Kobe aveva rapporto da fratello maggiore. Bryant era ossessionato dall’idea di migliorare: come giocatore, come persona, come padre. Chiamava Jordan alle 3 di notte, lo bombardava di messaggi. Una volta gli chiese: «devo migliorare il movimento dei piedi di mia figlia. Alla sua età, 12 anni, tu come lo gestivi?». «Mi dispiace, fratello, non ti posso aiutare - rispose ‘Air’ - io a 12 anni giocavo a baseball…». Jordan ci ricorda come dobbiamo sempre rispettare i tempi del processo di crescita, che variano da sport a sport e da persona a persona. Un esempio? Coco Gauff a 14 anni è già una donna, Sinner alla stessa età era un bambino alto un metro e 60.
Come si riconosce, allora, un talento? I grandi campioni spesso sono guidati da un’ossessione simile a quella di Bryant. L’importante è capire, parlando con i genitori, se è un’ossessione che viene dal ragazzo o se gli è imposta da fuori. Le due cose che mi hanno colpito di Djokovic, la prima volta che l’ho visto, sono state la sua straordinaria capacità motoria e il fatto che parlava e ragionava da adulto. Sapeva già come controllare la mente: la sua e quella degli altri. Chi fin da piccolo ha una personalità molto forte, del resto, da grande probabilmente farà la differenza. E a volte ha più bisogno di informazioni che di steccati. Le regole, intendiamoci, mi stanno bene, ma non si può sempre mettere ‘in castigo’ chi va sopra le righe. Quando vedo certi comportamenti di Medvedev penso che abbia dei problemi, certo; ma anche che ci stia lavorando su, visto che la moglie del suo coach Gilles Cervara è una mental coach.