Marco Caldara
12 April 2018

Quando «Rafa» era «Lello», e vinse a Barletta

Sono passati 15 anni da quando a vincere il Challenger di Barletta fu un sedicenne delle Baleari, che mangiava patatine nella club house e temeva di avere la "sindrome di Lendl". Di chi si tratta? Proprio Rafael Nadal, campione nella Città della Disfida nel 2003. Un paio di settimane dopo sarebbe entrato nella top-100, iniziando la sua scalata verso l'Olimpo.
Per il pubblico era semplicemente “Lello”, mangiava patatine nella club house mentre firmava autografi e in mezzo ai professionisti sembrava un raccattapalle, eppure il torneo lo vinse lui e mise tutti d’accordo: diventerà fortissimo. Sono alcuni stralci del ricordo che la gente del Circolo Tennis Barletta porta con sé di niente meno che Rafael Nadal, regalati ai posteri da Repubblica. L’archivio storico del quotidiano conserva ancora un articolo di quando ad appena sedici anni il futuro Re della terra battuta – e non solo – iniziò a presentarsi al mondo del tennis, e al Ct Hugo Simmen vinse il suo primo titolo Challenger, diventando il quinto più giovane di tutti i tempi (oggi è il settimo). Una casualità, o quasi, che splende nell’albo d’oro dell’Open Città della Disfida, uno dei tornei italiani dalla maggiore tradizione, nato nel 1997 e fortunatamente tornato in calendario nel 2016, dopo quattro anni di stop. In questi giorni si sta giocando la diciannovesima edizione, e a quindici anni dal titolo di “Rafa” il sito ATP ha pubblicato un piccolo amarcord. “Il circuito Challenger è stato il passo immediatamente precedente al mio arrivo nell’ATP World Tour”, ha detto Nadal. “Anche i Challenger sono tornei di livello e dopo i Futures è importante avere un altro step. A quell’epoca per me era tutto nuovo, e mi ricordo del titolo a Barletta. Mi diede grande fiducia, e subito dopo giocai a Monte-Carlo, il mio primo grande torneo”. Al Country Club il tennista di Manacor arrivò al terzo turno e si guadagnò i punti necessari per mettere per la prima volta piede fra i primi 100 del mondo, e iniziare a costruire un dominio senza precedenti sulla terra battuta, che proprio nel Principato di Monaco gli ha regalato alcune delle sue soddisfazioni più grandi.
"HO LA SINDROME DI LENDL"
È stato come salire su una macchina del tempo: un'idea di come sarà il gioco del futuro. Forte, molto forte, fisico e dirompente. Fatto non più da tennisti vestiti in bianco candido, ma da replicanti che piuttosto assomigliano a corazzieri”, scriveva al tempo Giuliano Foschini su Repubblica, abbagliato da quel sedicenne dalla faccia pulita che piaceva a tutti, e un diritto che richiedeva già il porto d’armi. “Ai tennisti della domenica perché un giorno vorrebbero avere anche loro quel diritto forte e armonioso; alle donne perché ha l'età che fa tenerezza; alle ragazzine perché con quella maglietta azzurra e il pantaloncino bianco sembra uscito da un giornale patinato”. Normale che Nadal non ricordi molto di quel titolo in Puglia, visto che i Challenger li ha assaggiati appena, e poi ha vinto di tutto e di più. Ma nel sito ATP, ovviamente, le tracce non sono sparite. Nadal era arrivato a Barletta subito dopo la finale a Cagliari, dove Filippo Volandri lo obbligò alla terza sconfitta in altrettante finali, KO che nella mente di Nadal alimentò più di una perplessità, e ha generato un aneddoto che, col senno di poi, la diceva già lunga sulla mentalità vincente di Nadal e sulla sua capacità di non accontentarsi mai, qualità alla base di una delle menti più forti che lo sport abbia mai conosciuto. L’ha raccontato qualche mese fa l’argentino Sergio Roitman, che lo batté il mese prima in finale a Cherbourg. “Era desolato, così andai a consolarlo, dicendogli che avrebbe vinto tanti tornei Challenger, e poi sarebbe diventato un grandissimo giocatore. Non potrò mai dimenticare come mi rispose: disse che aveva paura di avere la sindrome di Lendl, che perdeva tante finali. Avete capito bene: a sedici anni aveva già giocato tre finali Challenger e si preoccupava di non essere all’altezza”.
UN FUTURO GIÀ SCRITTO A 16 ANNI
A cancellare i suoi dubbi fanciulleschi ci pensò l’Open Città della Disfida, che negli anni precedenti aveva già accolto nell’albo d’oro gente come Carlos Costa (che nel 2003 accompagnava “Rafa” in Puglia), Felix Mantilla e Sergi Bruguera, e nelle due stagioni seguenti avrebbe premiato Nicolas Almagro e Richard Gasquet. L’allora sedicenne maiorchino superò all’esordio la leggenda del circuito Challenger Ruben Ramirez-Hidalgo (“si parlava già molto di lui, giocava alla grande e la sua incredibile forza mentale era già evidente”), poi Martin Vassallo Arguello, Albert Montanes, il tedesco Tomas Behrend e quindi il connazionale Albert Portas, sconfitto per 6-2 7-6 in finale. “La finale ha confermato quanto di buono aveva fatto vedere il giovanissimo spagnolo nel corso di tutta la settimana: un diritto potente, un rovescio sempre ben calibrato, un buon gioco a volo: caratteristiche che lasciano intravedere per lui un futuro luminoso”, prevedevano al tempo sempre su Repubblica. Frasi abbinate chissà quante volte a dei giovani emergenti, ma per una volta azzeccatissime. Quindici anni dopo risuonano come delle sentenze, pronunciate da un torneo dall’albo d’oro più che fortunato, anche se storicamente poco amico dei giocatori italiani. Fra i tornei dello Stivale con una certa tradizione, è l’unico a non aver mai incoronato nessun italiano. Hanno sfiorato il titolo in sei, da Sanguinetti a Starace, passando per Furlan, Di Mauro, Galvani e Volandri, ma nelle scorse diciotto edizioni mai nessuno ha saputo andare oltre la finale. Un compito che quest’anno è rimasto nelle mani di tre azzurri: Bolelli, Donati e Moroni. Nessuno diventerà come Nadal, ma già fargli compagnia nell’albo d’oro di un torneo non dev’essere poi così male.
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