Riccardo Bisti
27 February 2018

Ivan Ljubicic e la capacità di ascoltare

Non ancora 40enne, Ivan Ljubicic è considerato uno dei migliori coach al mondo in virtù dei risultati ottenuti con Milos Raonic e con Roger Federer. In un'intervista con l'ATP, svela le qualità necessarie per essere un buon allenatore. “Bisogna mettere da parte il proprio ego e saper ascoltare il giocatore. Inoltre, capire quando bisogna parlare e quando è meglio restare in silenzio”.

Sono passati già sei anni dall'ultima partita di Ivan Ljubicic. Storico allievo di Riccardo Piatti, da cui aveva trovato rifugio e ospitalità ai tempi della guerra nei Balcani, ha vissuto una carriera straordinaria che lo ha portato fino al numero 3 ATP. Tuttavia, la sua vita post-tennis sembra ancora più brillante. Subito dopo il ritiro è finito in TV, dove ha lavorato con profitto per Sky Sport. Poi ha intrapreso la vita del coach, prima con Milos Raonic e poi – occasione della vita – con il suo ex avversario Roger Federer. Sarà un caso e certamente ci sono altri meriti, ma da quando il croato siede all'angolo di King Roger, la sua carriera è letteralmente rifiorita. È andata ancora meglio del previsto, con il ritorno al numero 1 ATP, inseguimento coronato con la vittoria all'ATP di Rotterdam. Proprio in Olanda, “Ljubo” ha rilasciato un'intervista all'ATP in cui ha raccontato alcuni dettagli della sua nuova vita, in particolare sulle qualità necessarie per diventare un buon coach. “Se si parla di coaching ai massimi livelli, bisogna avere la capacità di saper ascoltare – ha detto Ljubicic – la cosa più importante è capire il giocatore. Bisogna ascoltare dall'inizio e poi continuare a farlo per arrivare a un buon grado di comprensione per poterlo aiutare”. Dal 2013 al 2015, il croato ha lavorato con Milos Raonic. Ha preso l'incarico a metà anno. “In quel caso non potevo cambiare tutto. Se un tennista è nel circuito da molto, ha i suoi schemi e le sue idee. Ha le sue opinioni su molte cose, e allora devi scegliere su quali aspetti combattere. Devono essere i punti che avranno maggiore impatto sul suo gioco e sul risultato”. L'approccio di Ljubicic ha funzionato alla perfezione da quando ha affiancato Severin Luthi all'angolo di Federer. Da allora, King Roger ha vinto nove titoli, tra cui tre Slam e tre Masters 1000. E pensare che in tutto questo c'è stata una pausa di sei mesi per l'infortunio al ginocchio.

PIATTI E ANNACONE COME MAESTRI
“La grande differenza tra giocatore e coach è che il giocatore è il capo – dice Ljubicic – il giocatore deve avere una grande forza mentale, deve essere un leader, perché sul campo è lui a prendere le decisioni. L'allenatore deve essere bravo a mettere da parte il proprio ego. Deve soltanto aiutare il giocatore a mettersi nelle condizioni di competere meglio ed essere una persona migliore”. Parlando delle sue esperienze, Ljubicic dice di non aver mai pensato né a breve, né a lungo termine. “Il problema è che se non si ha un impatto veloce, potrebbero non esserci obiettivi a lungo termine. Esiste anche la componente fortuna, perché è necessario ottenere risultati all'inizio per ottenere la fiducia di un giocatore. Non è importante il grado di fiducia del giocatore nei confronti del coach: se i risultati non arrivano, allora emergono i problemi”. Da parte sua, Ljubicic ha un vantaggio: essendo stato un tennista di altissimo livello, peraltro in tempi recenti, gli ha garantito un notevole rispetto nello spogliatoio. “Io amo allenare, è la cosa più vicina al gioco. Amo l'adrenalina, a volte le emozioni sono davvero grandi, ma non saranno mai come quelle che si provano sul campo da tennis. Non so possono paragonare: sono simili, ma l'intensità è inferiore”. Oggi Ljubicic ha 38 anni, è giovanissimo, ma è già un coach di livello in virtù dei maestri a cui si è rivolto per imparare la professione. Prima Riccardo Piatti, ma anche Paul Annacone. “Stavo ancora giocando e gli chiesi cosa significare fare l'allenatore. Ero soltanto curioso, e mi disse che la cosa importante è saper ascoltare. Per migliorarsi come allenatore bisogna ascoltare, studiare e guardarsi intorno, perché non sai mai quali informazioni potranno tornare utili”. Secondo Ljubicic, la cosa più difficile è individuare la linea dove bisogna smettere di parlare e limitare il proprio intervento. “Da allenatore, non puoi essere in nessun modo egoista. Semplicemente, non funziona. Devi capire, ed è ancora meglio se un giocatore commette un errore facendo qualcosa di contrario a quello che pensi. È il giocatore a scendere in campo, io penserò sempre che siano i tennisti a gestire lo spettacolo”.

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