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Federico Ferrero
27 October 2018

Todd Reid, un 34enne morto di tennis

La morte di Todd Reid, maturata per un probabile suicidio, non può essere liquidata con poche righe di finta commozione. Sarebbe opportuno fare un esame di coscienza da parte di troppe componenti del tennis che creano personaggi con la stessa facilità con cui li gettano nel cestino dell'indifferenziata.

Io non lo so, di chi sia la colpa. Anzi: non so se ci sia, una colpa. Non so se Todd Reid fosse una persona sola, se avesse qualche dipendenza. Non so cosa stesse facendo, non so cosa gli passasse per la testa ultimamente. Non so cosa sia successo, l’altro giorno. Non so se fosse fidanzato, sposato, dove abitasse, che automobile avesse, cosa gli piacesse mangiare. So che è morto a 34 anni, quando di solito si è iniziata da poco la vita adulta e, di solito, non si muore. So che Seven Sport Australia, al fondo di un pezzo in cui cammina in punta di piedi accanto al suo corpo e si allontana alla svelta con l’escamotage pietoso delle “circostanze non sospette”, mette tre numeri di telefono. Uno è Lifeline – prevenzione suicidi. L’altro è Suicide call back service. Il terzo, MensLine Australia, è un telefono amico per i maschi. Non so nulla di Todd Reid, perché ricordare che era quel ragazzino col muso ingrugnito campione a Wimbledon under 18, oppure contare quante partite ha vinto nei challenger, significa sapere qualcosa di una persona tanto quanto possa dire di conoscermi chi sa la mia data di nascita e la residenza fiscale. Mi fido del sempre informatissimo Riccardo Bisti: se dice che è stato tirato su da Bollettieri, l’accademia che è stata il più grande talentificio del mondo, ma suppongo anche quella in cui si sono schiantati più sogni e speranze di ragazzi e genitori in questo sport, io ci credo. Se dice che un manager rampante gli ha trovato lo sponsor del pollo fritto e della compagnia aerea ancor prima che iniziasse a giocare, ficcandogli in tasca dei soldi con il non-detto che ne sarebbero piovuti il centuplo appena avesse iniziato a vincere qualcosa, ci credo. Se racconta che non ha saputo reggere alle aspettative di una nazione in cerca di un atro numero uno del tennis; che, sostanzialmente, è stato buttato nel bidone dell’indifferenziata una volta capito che non sarebbe stato né il nuovo Laver né il nuovo Hewitt, ma neanche il nuovo Scott Draper, io ci credo. Ma possiamo finirla così? Con dieci righe di finta commozione? Con quell’odioso “RIP” che porta via il tempo di tre ditate su una tastiera? Dicendoci che succede, ogni tanto, che qualcuno la faccia finita? Succede, che un lutto o un fallimento facciano ruzzolare nella disperazione? Succede, che un Reid pensasse di essere Federer, invece era solo Reid e non ha avuto la forza per farsene una ragione?

Un giovane Todd Reid in compagnia di John Fitzgerald


Io credo di no. Credo che a tutti quelli che si occupano di tennis, dai genitori, ai coach, ai giornalisti, alle istituzioni, a tutti quelli con un briciolo di coscienza tocchi ammettere che se Todd Reid è finito in una stanza buia, e ha deciso di uscirci senza le sue gambe, quella stanza l’abbiamo tirata su anche noi. Sì, anche noi. Ciascuno per la propria parte: io e quelli che fanno il mio lavoro, con le nostre liturgie un tanto al chilo, con i pezzi “sparati” a cuor leggero sul nuovo Panatta, il nuovo Borg, il nuovo Agassi, il nuovo Sampras. I manager, i praticoni, gli affaristi, in cerca di puledri cui appiccicare il loro marchio e incassare la percentuale, quelli che girano nei tornei e avvicinano tutti i ragazzi promettenti, tentando di portarseli via per venderseli a qualche cliente. Anche loro hanno creato – la citazione è fuori contesto, ma credo funzioni – un clima infame. Le federazioni di tutto il mondo, parlo di quelle che prendono e mollano adolescenti trascinandoli sull’ottovolante, in trionfo se vincono, cancellando il numero dalla rubrica non appena le cose non funzionano. E quasi sempre, ripetiamolo il più spesso possibile, non funzionano: nel grande tennis, c’è posto per neanche cento giocatori in tutto il mondo. Cento in tutto il pianeta. È più facile che io esca di casa tra un’ora e il motore di un Airbus mi caschi in testa. Smettiamola, di dire che “basta crederci”, “basta non mollare”, “basta lavorare”. Non basta. Posso correre tutti i giorni per dodici ore al giorno, e non vincerò mai neanche la campestre di Cuneo. Se hai vinto Wimbledon juniores, hai già fatto una cosa rarissima eppure non hai fatto niente. Non sei nessuno: chiedetelo a Roman Valent, Scott Humphries, a Wesley Whitehouse. A David Skoch, uno che giocava come Gesù bambino; devo aver tenuto il ritaglio di un articolo in cui se ne parlava come del Messia, un incrocio tra McEnroe e Lendl. Sta ancora cercando la sua strada, in qualche torneo che probabilmente si gioca vicino a casa vostra. Non ha mai vinto niente e ha 42 anni. Spero non gli càpiti mai per le mani quell’apologia sul futuro dittatore del tennis. Perché per quasi tutti la musica finisce, gli amici se ne vanno; Todd Reid è una pagina sul sito dell’Atp. “Inactive”, non c’è manco la foto del passaporto; miglior classifica 105, partite vinte in carriera 14, ultimo match perso contro Van Peperzeel. Todd Reid è morto. Credo sia morto di tennis.

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