“Adesso Roger è il migliore di sempre”. (John McEnroe) “È il miglior tennista di tutti i tempi”. (Tim Henman) “Federer? Mister Perfetto”. (Boris Becker) “Secondo me, avesse o no vinto a Parigi, sarebbe stato comunque il più grande. Adesso che ce l’ha fatta ha consolidato la sua posizione come miglior tennista di tutti i tempi”. (Pete Sampras)
Roma, Foro Italico, maggio 2003. In sala stampa si discute: è mai questo il campione di Roma più scarso di sempre? Tutti pronti a scrivere di Roger Federer, il tennista ‘totale’ che domina anche la terra, e al quinto set la spunta Felix Mantilla, che ringrazia tutti e dà appuntamento agli amici per festeggiare in pizzeria (“Il trionfo della mediocrità”, chiosa Gianni Clerici).
Roger scuote il testone per l’occasione persa – non sa che non sarà l’unica - e scende in lotta contro tutti i grandi, senza averne contezza, ai primi di luglio, dieci anni dopo il primo Sampras. Capita nel Tempio di Wimbledon, quello che non può non essere il suo primo Slam. Hewitt, campione uscente, si fa sotterrare di badilate da un gigante balbuziente, Ivo Karlovic. Mark Philippoussis le prova tutte ma i suoi Scud sono come quelli di Saddam: grossi, lenti, impotenti contro i Patriot di Federer, che guizzano dappertutto e annichiliscono il bagnino aussie.
A fine anno, dopo aver condiviso pasti, stanze d’albergo e sfide alla Playstation con Lundgren (nella foto con il trofeo di Wimbledon), Roger solleva l’amico e consigliere dall’incarico: gli servono nuovi stimoli, nuove voci, nuove cose. Resterà un po’ da solo e se la caverà benissimo. Il 2 febbraio 2004 assurge alla carica di numero uno del mondo, scettro che cederà dopo 237 settimane consecutive. Razzia 11 tornei e tre quarti di Slam, il primo titolo in Australia, di fronte a un Safin stralunato, il primo a Flushing Meadows, contro uno Hewitt frastornato. Due macchie: la sconfitta contro Little Baby Face Berdych ai Giochi di Atene e quella di Parigi, al terzo turno, maturati con gli ultimi rantoli di Guga Kuerten. Da allora, semplicemente smette di perdere nei quattro grandi eventi prima delle semifinali.
Diventano venti di fila, con quella di Parigi 2009. Duemilacinque: c’è il nuovo coach. Il team Federer, di cui Paganini è membro regolare, puntano l’indice sul garbo e l’autorità di Tony Roche, una leggenda che Roger sceglie di assoldare prima a gettone, poi con una certa regolarità prima degli appuntamenti chiave della stagione. Entrambi tengono a una certa autonomia, si stimano, lavorano.
A Ivan Lendl ‘Roccia’ aveva provato a far vincere Wimbledon, con Roger tenta di rendere il tennis del numero uno intoccabile anche sulla terra. È anche una scelta di stile: tutto si poteva dire del Roger ragazzo, ma non che fosse classy. Mirka lo ha educato al rispetto e al buongusto, dal campo alla vita privata. Quando si lasciano, nel maggio del 2007 dopo la sconfitta agli Internazionali d’Italia contro quel ragazzo battuto a Firenze da junior, Volandri, la missione non è compiuta. Federer non ha eguali ma a Parigi lo ferma, prima della finale, quel mancinone di Manacor, Rafa Nadal.
A Roma 2006, dopo cinque set di spettacolo e due match point, vince ancora Nadal. Una sconfitta che peserà moltissimo. A Parigi, pochi giorni dopo, rivince Nadal. Come nel 2007, e nel 2008. Nascono due carriere parallele: Roger contro tutti, passati e presenti, e Roger contro Rafa, l’unico in possesso della pozione antiRoger. Gli Slam salgono, diventano dieci in Australia ’07, con Rod Laver che premia un Federer inarrivabile e piangente. Saranno tredici a fine 2008, e dietro un codazzo di record spaventoso: nel 2006 è in finale in tutti e quattro gli Slam e perde 5 partite (quattro contro Nadal, una con Murray) su 92. Nel 2007 pure, impresa mai riuscita a nessuno.
Intanto Nadal corre, corre, corre. Raddoppia, triplica, quadruplica il Roland Garros. Solletica Roger in finale a Wimbledon 2006, lo mette alle strette nel 2007. Nel luglio 2008, a notte fonda, lo abbatte: 9-7 al quinto, in quella che alcuni hanno nominato la miglior finale di sempre. Un terremoto su Basilea e circondario: Federer aveva assoldato Jose Higueras a tempo determinato, per annettere Parigi, l’ultimo regno non ancora sottomesso, ma era il suo mondo che stava crollando. Vince l’oro alle Olimpiadi di Pechino, ma solo in doppio (con Wawrinka).
A Parigi Bercy è costretto al forfait per il mal di schiena, ciò che non capitava da 763 partite, una vita. “Ho creato un mostro”, aveva detto dopo aver mancato, a gennaio, la finale australiana, messo sotto da Novak Djokovic. Ma di perdere sulla sua erba, e contro Rafa, non se l’aspettava. Chiude l’anno con la quinta zampata consecutiva a New York, che i pessimisti paragonano a quella di Sampras 2002 da dead man walking, morto che cammina.