01 February 2010

Roger Federer Story

Ripercorriamo la carriera che ha portato il fuoriclasse svizzero a eguagliare il record di titoli Slam di Sampras. In più un VIDEO imperdibile...

CAP 1

 

di Federico Ferrero - foto Getty Images,  Ray Giubilo

 

La sua prima partita? Certo che la ricordo. Aveva otto anni. Pescò uno che era il triplo di lui e perse 6-0 6-0. Ovviamente pianse come una fontana. (Adolf ‘Seppli’ Kacovsky, il suo primo maestro) 

 

Con la zazzera e il progetto di nasone, Roger Federer è il bimbo di otto anni che ride a occhi semichiusi e naviga in una tuta Reebok di due taglie più grande, in una foto di gruppo degli allievi dell’Old Boys Club di Allschwil. Un circolo un po’ defilato di Basilea, a sudovest della città, in Sankt Galler Ring. Un vialone scende verso la banlieue: e trovi Binningen, il paesone in cui vide la luce il giorno otto di agosto del 1981. Poco più sotto, a est, Muenchenstein, casa Federer per tanti anni.

 

Dall’altra parte della strada, rotolando verso sud, Oberwil, zona residenziale di livello dove il signor Sedici Slam ha comprato ultimamente la sua nuova casa. Tutta una vita in dieci chilometri quadrati. All’Old Boys, fine anni Ottanta e primi Novanta, comanda il capo maestro Adolf ‘Seppli’ Kacovsky, un signore nato in Cecoslovacchia e scappato nella primavera di Praga all’arrivo dei carri armati russi.

 

I Federer, papà Robert che lavora alla Chemical Industries Basel (la multinazionale Ciba) e mamma Lynette Durand, giocano a tennis per diletto. Si sono conosciuti nel 1970, nella sala mensa dello stabilimento di Johannesburg - anzi, pure loro in periferia, a Kempton Park. Si sono piaciuti, frequentati, sposati e nel 1973 sono tornati a casa di lui, Basilea. Nel 1979 nasce Diana, due anni dopo arriva Roger.

 

Che l’Old Boys lo bazzica dal 1984: ama il calcio ma è stregato dal tennis, a nove anni inizia le prime lezioni di gruppo: due ore, per tre giorni la settimana. A dieci, aggiunge un’ora la settimana di lezione privata. A dodici, un’ora di atletica. In parte pagano i Federer, in parte il circolo che sostiene i ragazzini più dotati. Lui è uno di quelli.

 

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CAP 2

 

“Due. Prima entrare nei primi dieci e poi diventare il numero uno del mondo”. (Questionario compilato alla scuola tennis da Roger Federer, alla voce “Quali sono i tuoi obiettivi?”)

 

Kacovsky, che per primo ha visto nel bambino i segni del talento, passa la pratica Federer a un ragazzo di fiducia, un giramondo dell’Australia del sud. Si chiama Peter Carter, ha ventinove anni e ci ha provato, a fare il professionista. Prometteva bene. Gli è riuscito di entrare per poco tempo nei primi 200 e sta per diventare un tennista vecchio, rovinato da troppi infortuni. Non sa che farà ma da qualche anno gioca i campionati a squadre per un circolo svizzero, che adesso gli offre un lavoro: c’è da consumare cesti e seguire i giovani dell’Old Boys. Impiego a tempo pieno, e pazienza per il solleone australe.

 

Accetta, e nel 1990 gli arriva Roger. Il bambino è iperattivo, oggi lo definiremmo incazzoso, ambizioso. Colpisce come nessuno ma a tratti è ingestibile. Spacca racchette, piange, fa scenate isteriche. Vuole sempre fare partita e non accetta di perdere. Anzi: non accetta l’errore.

 

Robert e Lynette (nella foto), imbarazzati da alcune scenate nei torneini del weekend, minacciano di non appoggiarlo più e di disertare le sue partite, se non cambia maniere. O peggio, di levargli la racchetta. Carter prende a cuore il suo caso, senza sapere che Roger lo ripagherà al centuplo. Nel 1993 è Roger Federer a vincere i campionati under 12 al chiuso e all’aperto: batte prima Marco Chiudinelli, che è il suo migliore amico, e poi Dany, il fratello minore di Patty Schnyder.

 

L’anno successivo potrebbe andare a studiare e giocare a spese della federazione svizzera a Ecublens, nel cantone francese. Roger, che in casa parla svizzero tedesco e a Muenchenstein sta benissimo, non ne vuol sapere anche perché non conosce la lingua e là non ha amici. Va comunque alle selezioni: un ex decatleta che lavora per il centro nazionale tennis, il signor Pierre Paganini, lo guarda per un quarto d’ora. Federer non ripete. Paganini non rispetta i tempi formali della pratica: promosso. Roger, convinto a trasferirsi vicino al lago di Ginevra, ripagherà anche lui.

CAP 3

 

“Ha tanto di quel talento contenuto nel suo corpo che è quasi difficile da credere. Direi che è quasi ingiusto che la stessa persona possa fare tutto come lui, servire, tirare diritto, rovescio, volée. E muoversi come sfiorasse solo il terreno, che è la caratteristica dei fenomeni” (Rod Laver, due Grand Slam nel 1962 e 1969)

 

Certe cose non si aggiustano in un anno, neanche nella testa dei fenomeni. Roger è a Ecublens dal principio del 1995, nel luglio 1996 ha già disputato il primo torneo Itf dedicato agli juniores: lo gioca in casa e passa due turni. Batte l’austriaco Lukas Rhomberg, perde contro l’australiano Nathan Healey.

 

Nella World Youth Cup trova un altro australiano incazzoso anche più di lui, Lleyton Hewitt, capitanato da un altro aussie, Darren Cahill. Cahill e Carter, reponsabile tecnico svizzero nell’occasione, sono amici di gioventù. Il primo è convinto che Roger non sia un miracolato, che il suo rovescino tagliato sia leggero, che abbia un caratteraccio. Bravo, non eccezionale. Carter no: sente che Roger è un fenomeno. Federer non sa ancora chi ha ragione ma sa che vorrebbe già essere perfetto.

 

Non ci riesce e allora spacca telai, impreca, piange, scalcia sedie e borsoni. Tanto che viene spedito dallo psicologo sportivo per calmare le mattane. Finisce la scuola dell’obbligo a sedici anni, saluta Ecublens e torna a lavorare con Carter, nel Novantasette: vanno a Bienne, in un centro tutto nuovo. A maggio il primo successo: torneo internazionale giovanile di Prato, sei partite vinte in due set, dal primo turno contro l’italiano ‘colorato’ Giunior Ghedina alla finale dominata col croato Kutanjac.

 

Novantotto: è l’ultimo anno da puro under, quello del botto. Domina i Victorian Championships, semifinale agli Australian Open (lo supera Andreas Vinciguerra); batte un ragazzo di Livorno, Filippo Volandri, in finale al Città di Firenze.

 

Con una prima di servizio esterna sul rovescio di Irakli Labadze sono suoi i Championships di Wimbledon 1998 (foto): 6-4 6-4. Pure quelli di doppio, con Olivier Rochus. In finale agli Us Open lo sgambetta un argentino che serve piano ma palleggia da senior, David Nalbandian, ma Roger si vendica all’Orange Bowl di dicembre in semifinale. In finale fa fuori Guillermo Coria. Finisce l’anno come numero uno del mondo dei minorenni. Il Fed-Ex è partito.

CAP 4

 

“C’è stato un tempo in cui credevo che il tennis fosse tutta una questione di tattica e di tecnica”. (Roger Federer) 

 

Primo match nel circuito “pro”: Lucas Arnold Ker, un doppista che il mondo del tennis conoscerà perché guarito dalla stessa malattia di Lance Armstrong, è l’esecutore di Roger Federer al primo turno del torneo di Gstaad, edizione 1998. Doppio 6-4.

 

Federer è brillante ma sulla terra, che pur conosce, sbaglia tanto, col rovescio contiene. Serve poche prime, cede quattro turni di battuta, un’ora e venti e finisce in doccia. Un giornale specializzato si occupa di lui ma non scioglie il dubbio: riuscirà a ripercorrere le orme di Hlasek e Rosset? La testa, quella, sembra molto diversa da quelle dei campioni.

 

Aprile 1999, la Svizzera di Davis (nella foto) ospita l’Italia nel primo turno del World Group. Il nuovo capitano rossocrociato è l’italosvizzero Claudio Mezzadri, che può mettersi dalla parte della ragione o rischiare. C’è Marc Rosset, numero uno indiscusso. Poi Lorenzo Manta, per il doppio, e due secondi singolaristi: Ivo Heuberger e George Bastl. Mezzadri va da Federer, gli parla, si convince all’azzardo e lo butta nella mischia.

 

Roger, capelli ossigenati e orecchino, è tranquillo e spocchioso. Tira fortissimo di dritto. Doma l’esperto Sanguinetti in quattro set e la Svizzera vince, tre a zero. Il primo a scendere dal Fed-Express è Carter: a Bienne Roger conosce Peter Lundgren, un ex professionista svedese, da giocatore crinuto e segaligno, da coach solo crinuto. Peter Primo non vuole più seguire Federer in giro per il mondo perché ha famiglia, gli indica Peter Secondo come possibile rincalzo.

 

A giugno arriva una lettera da Church Road, Wimbledon: un invito a giocare il tabellone principale per il campione juniores in carica. Federer va e perde in cinque set contro un solidone, Jiri Novak. A Brest abbatte la Bestia Max Mirnyi e vince il primo Challenger: torna a casa e fa vedere ai suoi la prima coppa da professionista.

CAP 5

 

“Qualcuno dice che sia meglio nascere fortunati piuttosto che bravi. Io preferirei, piuttosto che nascere fortunato, nascere Roger”. (Andre Agassi) 

 

Olimpiadi del Nuovo Millenio. Nei vialoni dell’Olympic Park si inizia a riconoscere quel Federer, che gira per i viali del villaggio ancora un po’ truzzarello e finisce in braccio a una ragazza di tre anni più vecchia. Gioca pure lei per la Svizzera anche se è nata a Bojnice, in Slovacchia. Miroslava, detta Mirka. Si scambiano sorrisi e il numero, si piacciono.

 

Lei, che da bambina era stata segnalata da Martina Navratilova, perde subito, 6-1 6-1 per mano di uno scricciolo moscovita, Dementieva; lui cede la medaglia di bronzo al rovescio d’artista di Arnaud Di Pasquale. Non hanno idea che si ritroveranno in patria, che lei smetterà di giocare per un piede dolorante, che si fidanzeranno, si sposeranno, avranno un figlio e Mirka sarà la sua manager totale. Men che meno che lui sarà il best ever, il più grande di sempre, non della Svizzera ma del mondo.

 

Però, ormai, nessuno tra i tecnici ha dubbi: questo Roger Federer è un progetto di campione. Quanto grande? Questo non si sa. A febbraio timbra la prima finale Atp, in quel di Marsiglia, ma l’amico Pippo Rosset gli dice di no con l’indice, a suon di servizi vincenti. A ottobre ‘Rog’ ci riprova, proprio a casa sua, Basilea: strappa via una partita da urlo a Hewitt in semifinale ma le cannonate di Thomas Enqvist gli negano il titolo, 6-1 al quinto set. Finisce l’anno nei primi trenta, Lundgren si frega le mani.

CAP 6

 

“Ci sono dei ragazzi di qualità in arrivo ma questo è speciale. Roger gioca bene dappertutto, come me. Come me non si emoziona mai troppo ed è uno splendido atleta”. (Pete Sampras, Wimbledon 2001) 

 

Febbraio del 2001. La stagione è in risveglio dal letargo, Agassi vince gli Open dei canguri battendo Clement in finale e Roger pianta il primo paletto: lo interra con la Wilson Pro Staff Original, quella nera, sul centrale del Palalido di piazzale Stuparich a Milano, che ospita una delle ultime edizioni dei Milano Indoors (nella foto). Nella partita per il titolo fa fuori il francese Julien Boutter.

 

Negli spogliatoi lo rispettano tutti anche se ha vent’anni da compiere e poca barba: le racchette le lancia ancora ma non le spacca più, le scenate non se le può più permettere e ha capito, come fece Borg, che dare di matto non lo ‘carica’ come McEnroe ma gli succhia energie vitali. Lo rispetta anche la Nike, la Casa dello swoosh che gli ha appiccicato addosso i suoi baffi da quattro anni sperando di averci visto giusto. Ci ha visto giustissimo. Ottavi di finale a Wimbledon, campo Centrale, Sampras (nella foto) incrocia la Pro Staff con quella di Federer.

 

Non perde, Sweet Pete, da 31 partite, da quella giornata stortissima con Baby Face Krajicek del ’96. Federer non serve come lui ma passa meglio. Di rovescio è tre volte più forte. Al volo, taglia e chiude come il Maestro di Washington DC. Paura? Zero. Pete è il suo idolo ma lui sa di poterlo battere. Risposta vincente di dritto in lungolinea sul 5-6 15-40 del quinto: Roger Federer diventa un campione. 7-6(7) 5-7 6-4 6-7(2) 7-5: è morto il Re, viva il Re. Anche se per il nuovo sovrano ci vuole ancora un po’ di labor limae. Roger è sgrezzato ma non del tutto. Il 2002, l’anno palindromo, è quello del cantiere. E del dolore. A Milano torna ma perde in finale, da un Sanguinetti maturo e ispiratissimo.

 

A Parigi, dove difende i quarti, lo incarta il talento di Arazi. A Wimbledon peggio ancora: eliminato all’esordio daMario Ancic. Vince tre titoli, il primo Masters Series, ad Amburgo. Poi, ancora lacrime: Carter. È il primo agosto del 2002, Peter è in Sudafrica con la moglie Sylvia, un viaggio-vacanza per festeggiare la di lei guarigione dal cancro. Si spostano in auto separate. La Land Rover di Carter finisce fuori strada vicino al Kruger National Park, lo schianto è fatale.

 

Roger ha appena perso al primo turno del Masters Series di Toronto contro Guillermo Cañas, gli squilla il cellulare, è la mamma con una notizia terribile. Roger è sconvolto. Lo ricorderà a tutti a Vienna, dedicandogli il titolo, e dicendo che gli “manca da morire”. A metà ottobre bussa ai top ten col questionario della scuola tennis, dice che ha una promessa da mantenere e lo fanno entrare. Un anno dopo smette di lottare contro i classificati dal 2 al 10, e inizia la sua guerra contro la storia. Dove finisce la fiaba e inizia il calcolo ingegneristico.

 

CAP 7

 

“Adesso Roger è il migliore di sempre”. (John McEnroe) “È il miglior tennista di tutti i tempi”. (Tim Henman) “Federer? Mister Perfetto”. (Boris Becker) “Secondo me, avesse o no vinto a Parigi, sarebbe stato comunque il più grande. Adesso che ce l’ha fatta ha consolidato la sua posizione come miglior tennista di tutti i tempi”. (Pete Sampras)

 

Roma, Foro Italico, maggio 2003. In sala stampa si discute: è mai questo il campione di Roma più scarso di sempre? Tutti pronti a scrivere di Roger Federer, il tennista ‘totale’ che domina anche la terra, e al quinto set la spunta Felix Mantilla, che ringrazia tutti e dà appuntamento agli amici per festeggiare in pizzeria (“Il trionfo della mediocrità”, chiosa Gianni Clerici).

 

Roger scuote il testone per l’occasione persa – non sa che non sarà l’unica - e scende in lotta contro tutti i grandi, senza averne contezza, ai primi di luglio, dieci anni dopo il primo Sampras. Capita nel Tempio di Wimbledon, quello che non può non essere il suo primo Slam. Hewitt, campione uscente, si fa sotterrare di badilate da un gigante balbuziente, Ivo Karlovic. Mark Philippoussis le prova tutte ma i suoi Scud sono come quelli di Saddam: grossi, lenti, impotenti contro i Patriot di Federer, che guizzano dappertutto e annichiliscono il bagnino aussie.

 

A fine anno, dopo aver condiviso pasti, stanze d’albergo e sfide alla Playstation con Lundgren (nella foto con il trofeo di Wimbledon), Roger solleva l’amico e consigliere dall’incarico: gli servono nuovi stimoli, nuove voci, nuove cose. Resterà un po’ da solo e se la caverà benissimo. Il 2 febbraio 2004 assurge alla carica di numero uno del mondo, scettro che cederà dopo 237 settimane consecutive. Razzia 11 tornei e tre quarti di Slam, il primo titolo in Australia, di fronte a un Safin stralunato, il primo a Flushing Meadows, contro uno Hewitt frastornato. Due macchie: la sconfitta contro Little Baby Face Berdych ai Giochi di Atene e quella di Parigi, al terzo turno, maturati con gli ultimi rantoli di Guga Kuerten. Da allora, semplicemente smette di perdere nei quattro grandi eventi prima delle semifinali.

 

Diventano venti di fila, con quella di Parigi 2009. Duemilacinque: c’è il nuovo coach. Il team Federer, di cui Paganini è membro regolare, puntano l’indice sul garbo e l’autorità di Tony Roche, una leggenda che Roger sceglie di assoldare prima a gettone, poi con una certa regolarità prima degli appuntamenti chiave della stagione. Entrambi tengono a una certa autonomia, si stimano, lavorano.

 

A Ivan Lendl ‘Roccia’ aveva provato a far vincere Wimbledon, con Roger tenta di rendere il tennis del numero uno intoccabile anche sulla terra. È anche una scelta di stile: tutto si poteva dire del Roger ragazzo, ma non che fosse classy. Mirka lo ha educato al rispetto e al buongusto, dal campo alla vita privata. Quando si lasciano, nel maggio del 2007 dopo la sconfitta agli Internazionali d’Italia contro quel ragazzo battuto a Firenze da junior, Volandri, la missione non è compiuta. Federer non ha eguali ma a Parigi lo ferma, prima della finale, quel mancinone di Manacor, Rafa Nadal.

 

A Roma 2006, dopo cinque set di spettacolo e due match point, vince ancora Nadal. Una sconfitta che peserà moltissimo. A Parigi, pochi giorni dopo, rivince Nadal. Come nel 2007, e nel 2008. Nascono due carriere parallele: Roger contro tutti, passati e presenti, e Roger contro Rafa, l’unico in possesso della pozione antiRoger. Gli Slam salgono, diventano dieci in Australia ’07, con Rod Laver che premia un Federer inarrivabile e piangente. Saranno tredici a fine 2008, e dietro un codazzo di record spaventoso: nel 2006 è in finale in tutti e quattro gli Slam e perde 5 partite (quattro contro Nadal, una con Murray) su 92. Nel 2007 pure, impresa mai riuscita a nessuno.

 

Intanto Nadal corre, corre, corre. Raddoppia, triplica, quadruplica il Roland Garros. Solletica Roger in finale a Wimbledon 2006, lo mette alle strette nel 2007. Nel luglio 2008, a notte fonda, lo abbatte: 9-7 al quinto, in quella che alcuni hanno nominato la miglior finale di sempre. Un terremoto su Basilea e circondario: Federer aveva assoldato Jose Higueras a tempo determinato, per annettere Parigi, l’ultimo regno non ancora sottomesso, ma era il suo mondo che stava crollando. Vince l’oro alle Olimpiadi di Pechino, ma solo in doppio (con Wawrinka).

 

A Parigi Bercy è costretto al forfait per il mal di schiena, ciò che non capitava da 763 partite, una vita. “Ho creato un mostro”, aveva detto dopo aver mancato, a gennaio, la finale australiana, messo sotto da Novak Djokovic. Ma di perdere sulla sua erba, e contro Rafa, non se l’aspettava. Chiude l’anno con la quinta zampata consecutiva a New York, che i pessimisti paragonano a quella di Sampras 2002 da dead man walking, morto che cammina.

CAP 8

 

“Non so se questo sia stato il più grande successo di sempre, per me. Di sicuro è quello che mi ha dato la maggior soddisfazione nel togliermi di dosso un peso. Perché da oggi alla fine della mia carriera potrò giocare senza avere il pensiero di non aver mai vinto a Parigi. Sapevo che il giorno in cui Rafa non sarebbe stato in finale io ci sarei stato e avrei vinto. L’ho sempre saputo e ci ho sempre creduto. Questo è esattamente quello che è successo”. (Roger Federer)

 

A Muenchenstein trovate un parco e un’ex fabbrica convertita in una galleria d’arte, la Schaulager. Se chiedete qualche traccia del passaggio di Roger troverete il nulla. Non una statua, una placca, un cartello, un’aiuola, una panchina dedicata a Federer. Neanche al suo circolo. In Svizzera sono fatti così. “Forse dovremmo fare qualcosa in più per onorarlo, è vero.

 

Però non siamo mica gli Stati Uniti, che fanno i monumenti ai loro campioni”. Parole misurate di Nick Von Vary, il presidente del Club Old Boys. Che non cambiano al mutare degli eventi, anche i più improbabili, Rafa abbattuto da Soderling, Federer che si fa consegnare da Andre the Kid la Coppa dei Moschettieri. Neanche adesso che Roger ha agguantato Mister 14 Slam, Pete Sampras (nella foto con lui).

 

Pari ma meglio di Sampras. Gli altri cinque eroi del career Slam furono Don Budge (Grand Slam nel 1938), Fred Perry, Rod Laver (due Grand Slam, 1962 e 1969), Roy Emerson (che 10 dei suoi 12 Slam li vinse mentre i migliori facevano i professionisti da baraccone, tra il ‘63 e il ‘67) e Andre Agassi, giusto dieci anni fa, miracolato dal dio Racchetta e portato a vincere una finale da coccolone con Andrei Medvedev. Nell’elenco non c’è Pistol Pete, che al Roland Garros - Federer lo ricorda bene e volentieri - aveva messo insieme una sola semifinale, ceduta di schianto a Principino Kafelnikov nel 1996.

 

I Federer sono contenti così: vogliono bene a Diana, che fa l’infermiera, tanto quanto a Roger, il figliolo che non assomiglia più a quel ragazzetto indisciplinato e scostante che amava dormire ed era sempre in ritardo, e che oggi è un personaggio venerato dalle folle, braccato dai giornalisti, valutato a peso d’oro. Che sia capitato a loro il più grande campione di tennis di tutte le epoche non ha sconvolto i valori, se non quelli bancari. Perché a casa vige ancora il detto: “È un cosa buona essere importanti ma è più importante essere buoni”. Se poi si è i migliori, meglio ancora.

 

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