Il sogno americano di Gaia Sanesi

“Voglio trasferirmi in America". Parola di Gaia Sanesi quando aveva appena 13 anni. I genitori erano contrari, ma la testardaggine paga: Gaia l'ha avuta vinta anche grazie all'intercessione del papà di Giacomo Miccini. È rimasta sette anni negli USA. “Lo rifarei”. Oggi ha 25 anni ed è n.371 WTA.

Era il 2006 quando Gaia Sanesi, classe 1992, ha messo a fuoco il suo sogno americano: “L'ho deciso e voluto io, i miei genitori inizialmente non erano d’accordo”. Gaia aveva 13 anni, e lasciare così presto l'Italia ha fatto nascere una persona nuova: “L'accademia di Nick Bollettieri ti prepara alla vita” ha detto.

A che età hai deciso di trasferirti negli Stati Uniti?
Avevo 13 anni e sono rimasta a Bradenton fino ai 17, poi mi sono allenata a Tampa altri tre anni. In totale ho trascorso 7 anni in America. Nel primo anno fui inserita nel gruppo di Mauricio Hadad, coach di Heather Watson quando lei è entrata nelle prime 100 in classifica. Per un periodo ha seguito anche Maria Sharapova. Successivamente mi sono trasferita in Spagna, a Barcellona, per altri 4 anni. Il primo anno sono stata seguita da Juan Amilibia e, in seguito, ho raggiunto il mio best ranking con Martin Vilar e Gonzalo Lopez. Mi allenavo in gruppo con Anabel Medina che è stata 12 WTA in singolare e 2 in doppio, Alexandra Dulgheru con un passato da 26 WTA ed Estrella Cabeza Candela, all'epoca numero 80 al mondo.

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
I miei genitori non erano d’accordo perché ero piccola e sarei andata a vivere a 12 ore di volo di distanza. Prima di trasferirmi definitivamente, ho fatto un periodo di prova di due settimane insieme ad altri italiani e poi altre due settimane insieme ai miei genitori. In questo modo hanno potuto vedere la struttura e i rigidi controlli per i ragazzi; telecamere fuori dai dormitori, controlli due volte durante la mattina, due volte nel pomeriggio, due volte la sera e due volte la notte. Alla fine cedettero, a convincerli fu anche il padre di Giacomo Miccini, che già viveva là. Li prese da parte e disse loro: “La peggior cosa che le può succedere è imparare l’inglese”. Non fu una scelta facile per i miei genitori, soprattutto per mio padre.

Non è stato difficile staccarti così presto dalla famiglia?
Avevo 13 anni e a quell'età non capisci niente. Ero felicissima perché avevo modo di studiare e giocare a tennis dando la stessa importanza a entrambe le attività. In Italia, ancora oggi, non è possibile. Quando ero in Italia dopo la scuola mangiavo in macchina, mia mamma mi portava a Firenze che era a 40 minuti da casa nostra, mi allenavo, nel viaggio di ritorno studiavo, poi mangiavo e andavo a letto. Lo fanno ancora oggi molti ragazzi. Con i miei compagni di classe non mi trovavo molto: quando mi sono trasferita in America, invece, ho conosciuto ragazzi con i miei stessi interessi. In America la scuola ti aiuta molto, anzi i professori sono contenti se accompagni lo studio con lo sport. Inoltre le borse di studio danno la possibilità di pagarti l’Università grazie all'attività sportiva. Sono partita dall’Italia senza conoscere una parola in inglese e alla fine sono riuscita a concludere le superiori negli Stati Uniti. A 16 anni, che è un età critica, dopo tre anni lontana da casa, ho passato un periodo difficile. Iniziavo a sentire la mancanza delle cose più semplici, come la buonanotte di una mamma..

Ti ricordi qualche esperienza particolare vissuta in accademia?
Erano veramente molto rigidi. Non so se sia ancora così, ma bisognava seguire le indicazioni che ti davano in accademia, ad esempio: dovevi rifarti il letto al mattino, buttare la spazzatura, mettere in ordine la camera, andare a scuola con l’uniforme, allenarti, tornare in dormitorio entro una certa ora… Se non seguivi una di queste regole e venivi scoperto, prendevi "zero". Se facevi qualcosa di grave ne potevi ricevere anche più di uno. Se ricevevi sei zeri in una settimana, nel week end non potevi uscire e, nella settimana successiva, dovevi passare 45 minuti chiuso in una stanza a studiare. È un’accademia sportiva che ti prepara per la vita, mi ha insegnato a stare al mondo. Quando andavamo in giro, la gente sapeva che eravamo studenti di un’accademia molto costosa quindi avevamo l’etichetta di “ragazzi viziati”. Alcuni lo erano, ma altri facevano di tutto per poter avere una borsa di studio perché non si potevano permettere di restarci a lungo, o comunque sentivano un forte senso di responsabilità verso i genitori.

Com’era suddivisa la giornata?
Dalle 7.00 alle 8.00 facevamo riscaldamento, dalle 8.00 alle 11.00 tennis, dalle 11.00 alle 12.00 atletica, poi c'erano 45 minuti di pausa pranzo. Alle 12.45 iniziava la scuola e tutti avevano un orario diverso perché in America la scuola funziona in base ai crediti, quindi in base ai corsi che scegli hai orari diversi. Dopo la scuola potevi decidere se tornare ad allenarti oppure andare a mangiare e terminare la giornata. Io andavo ad allenarmi. Alle 21.45 dovevamo essere in camera e alle 23.00 le luci dovevano essere obbligatoriamente spente. In questi ultimi due orari passavano i controlli, se alle 21.45 non eri in stanza o alle 23.00 non avevi la luce spenta prendevi "zero".
È una scelta che rifaresti?
Sicuro. Se un domani dovessi avere dei figli e la possibilità economica per mandarli, non ci penserei due volte. Lo scorso dicembre e quello di due anni fa sono tornata ad allenarmi due settimane da Bollettieri e mi accolgono tutti a braccia aperte, mi sento come se fossi a casa. Sento tuttora tanti amici con cui ho vissuto quell’esperienza. È stata la scelta migliore che potessi fare.

Ti sei confrontata sin da piccola con un mondo in piena competizione. Tutti erano da Bollettieri per raggiungere lo stesso obiettivo. Com’è stato?
C’era molta competizione anche perché eravamo suddivisi in gruppi. In base al tuo livello eri in un gruppo con altre sette giocatrici e un responsabile a capo del team. Tutti volevano essere nel gruppo dei più forti: per arrivarci, durante la settimana, dovevi vincere contro chi ne faceva parte. Al contrario, se perdevi contro qualcuno di un gruppo inferiore, rischiavi di retrocedere. Venivano poi organizzati tornei interni che consentivano di avere la wild card per giocare l’Eddie Herr, uno dei tornei junior più importanti al mondo. La competizione era presente anche nelle piccole cose, ad esempio le gare verso la mensa per vedere chi arrivava per primo. Eravamo sportivi, quindi la competizione faceva parte di noi.

Quando hai deciso di tornare in Italia e perché?
L'ho deciso dopo essere andata in Spagna. Dopo aver preso la mononucleosi non avevo più forza per giocare, non ero più me stessa in campo. Ho passato un periodo orribile, sono tornata a casa perché avevo deciso di smettere di giocare. Dopo 11 anni all’estero mi stava iniziando a pesare la lontananza dalla famiglia.

Adesso sei in Italia, al Tc Milano Alberto Bonacossa e ti alleni con Francesco Zacchia e Matteo Cecchetti. Quali sono i tuoi obiettivi futuri?
L’obiettivo è provare a superare il mio best ranking che ho raggiunto quando mi allenavo in Spagna, 294 WTA. Tre settimane fa ho fatto la prima finale in un $25.000, sono molto contenta, ho conquistato un po’ di punti, ora sono 371 WTA. Vediamo.
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