Un’abitudine, quella di vedere trionfare Jannik Sinner, tanto piacevole da creare l’ansia dell’imprevisto

foto Brigitte Grassotti

Ogni volta che ti metti davanti alla tv per guardarlo giocare le varie finali – e ormai è un appuntamento quasi settimanale – c’è sempre una certa ansia. Perché quando gioca Jannik Sinner sai che è lui il favorito, nettamente favorito, senti che alla fine vincerà, e quell’ansia lì è dedicata solo all’eventuale imprevisto. A parte Alcaraz, sembra che l’unico altro avversario in grado di batterlo siano i crampi.
A Parigi è arrivato il ventitreesimo titolo in carriera, a ventiquattro anni, il secondo in una settimana, e noi appassionati continuiamo a vivere dentro a questa sbornia continua di chi si era rassegnato a non vedere mai un tennista italiano vincere Wimbledon, a essere numero 1 al mondo.
Ecco, quell’ansia si presenta puntale perché alla fine temi che quella sbornia svanisca.

Ma no, non è una sbornia. È realtà. C’è un giocatore italiano (italiano, cari Vespa e Gramellini) capace con la sua costanza, la sua determinazione, il suo talento e il suo coraggio, di mettere a tacere ogni polemica. Di parlare con i fatti, con il suo mestiere. Anche noi che scriviamo dovremmo parlare con i fatti, facendo al meglio, come fa Sinner, il nostro mestiere. E i nostri fatti sono le parole. Ecco, mettiamola così: nel dover scrivere di colui che non è del tutto fuori luogo considerare oggi forse il più grande sportivo italiano di tutti i tempi, di parole non riusciamo a trovarne più, dovremmo inventarne di nuove. Come le racconti ormai le imprese in successione, una dietro l’altra, di questo ragazzo nato lassù, a San Candido, che continua a sorprenderci, ogni volta, dotato di una tale forza interiore da essere impermeabile a tutto, anche alle polemiche più feroci, che gli sono arrivate proprio da noi, dai suoi connazionali, perché noi siamo degli autolesionisti, tutti pronti a berciare sciocchezze? Come facciamo? Alcuni prendono le scorciatoie delle sciocchezze, delle insinuazioni, del moralismo. Sono quelli che si sentono numeri uno senza esserlo mai stati.

Quanto ci manca Gianni Clerici, l’unico – insieme forse agli altri due suoi omonimi, Brera e Mura – che sarebbe stato in grado di coniarle, quelle parole nuove. Ai fatti del campo e in campo (e poco importa la superficie) ci pensa Jannik Sinner. Ai fatti delle parole, dobbiamo pensarci noi, e dovremmo imparare proprio da lui per trovare quelle adatte a raccontarlo. Parole da cercare con costanza, determinazione e coraggio. E dovremmo farlo in fretta, perché nel frattempo lui continuerà a vincere a ripetizione. E no, non si tratta di una sbornia.