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Il tennis intimo dei documentari: quattro campioni come non li abbiamo mai visti

Il calvario di Andy Murray, la maternità di Serena e, più recentemente, l'impresa della Spagna in Coppa Davis vissuta attraverso la tragedia di Bautista Agut. Ma anche l'ingiustizia subita da Vilas nel lontano 1975... storie di sofferenza, di rivincita, da gustarsi in queste serate, in attesa che il grande tennis ricominci

Foto Ray Giubilo

Il potere di una storia – qualunque essa sia – è quello di mostrare, insegnare, ispirare. Se si parla di storie di sportivi, poi, questo ideale ne viene ancora più rafforzato: lo sport è epica, ma molto spesso pure tragedia, sofferenza, sacrificio. Raggiungere un obiettivo non è mai una cosa semplice; del resto non si dice che il viaggio conta più della meta? Ecco, per un atleta il concetto aderisce alla perfezione – no pain, no gain, recita il saggio – e tutto quello che c’è dietro la costruzione e il successo di un campione ha un significato speciale e ineguagliabile: materia perfetta da raccontare, e da mettere sotto forma di sceneggiatura.

Così negli ultimi anni i documentari sportivi, sotto diverse spinte, sono diventati un genere a sé finalmente considerato, senza più nessuna preclusione né schizzineria – persino nei corridoi dell’Academy si è finiti a dire che sì, pure lo sport merita le sue statuette dorate (come è successo a Free Solo nel 2019). Le ragioni: la crescita e affermazione di piattaforme come Netflix e Prime Video, che nelle reciproche battaglie per la supremazia nel mondo dell’intrattenimento hanno dovuto spostare sempre più in alto l’asticella e raggiungere un pubblico sempre più esigente; e poi il fatto che molti atleti hanno colto l’importanza di una comunicazione diversa – aprirsi al pubblico e svelare il non-visto è sempre una buona idea, che sia guidata da ragioni di marketing oppure no.

Pure il racconto del tennis ha seguito questa strada, allontanandosi dal solco dei film ufficiali, prodotti stilisticamente impeccabili ma dalla resa un po’ troppo corporate. In anni recenti non sono mancate produzioni non convenzionali, come l’onirico John McEnroe, L’Impero della Perfezione, che scruta da vicino i guizzi dell’americano come fosse un animale mitico negli abissi dell’oceano; ma se dovessimo guardare all’insieme, non c’è dubbio che il racconto del dietro le quinte stia funzionando alla perfezione. Un vero e proprio genere che mette sul palcoscenico le debolezze umane, anche se stiamo parlando di campioni di successo – un tennis “intimo” che non avevamo mai avuto occasione di ammirare, e tastare, così da vicino.

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Resurfacing, il documentario dedicato a Andy Murray uscito poco più di un anno fa, racconta il calvario fisico dello scozzese, tormentato da un’anca difettosa. La convalescenza di Murray, come sappiamo, è durata più del previsto, e alla fine Resurfacing è diventato una testimonianza, crudele e senza filtri, di una lotta estenuante con e per il proprio corpo, accentuando la dimensione autenticamente umana dell’atleta – all’insegna di una decostruzione del mito del campione onnipotente, e delle sue etichette di sfacciato e milionario.

Pure il Being Serena del 2018 ha messo in piedi lo stesso approccio, scegliendo un’occasione particolare: la maternità della Williams, costretta a interrompere l’attività agonistica e a dover fronteggiare i problemi, e i dubbi e i timori, di una mamma qualsiasi.

Gli ultimi due arrivi in ordine temporale raccontano bene come questa nuova “intimità” possa prestarsi a diverse angolature. Break Point – A Davis Cup Story, prodotto dal gruppo Kosmos, al di là degli evidenti intenti (auto)celebrativi del nuovo format del torneo ideato da Gerard Piqué e soci, racconta una storia, anzi la storia: il successo della Spagna filtrato attraverso il dramma di Roberto Bautista Agut, che nei giorni del torneo apprende la notizia della scomparsa del padre. Match e punteggi finiscono per essere relegati a semplice sottofondo, più utili a ricreare un contesto che a esaltare le prodezze di questo o quel tennista, perché il focus è tutto centrato su Bautista e sulle reazioni dei suoi compagni – l’assenza forzata e poi il ritorno, dunque la catarsi finale. «Roberto non stava giocando solo per una partita, ma per qualcosa di più grande», si sente dire a un certo punto.

L’altra novità è Vilas: Tutto o niente, che ripercorre la battaglia di un giornalista argentino, Eduardo Puppo, nel dimostrare come l’Atp abbia colpevolmente sottratto a Vilas la posizione numero uno del ranking nel 1975. La narrazione corre su due binari cronologici: gli sviluppi delle minuziose ricerche di Puppo e il ripercorrere la carriera di Vilas, soprattutto negli anni del suo zenit tennistico, con preziosissime testimonianze d’archivio.

Ad oggi, nonostante le insistenze di Puppo, a Vilas non è stato riconosciuto il fatidico primato nel ranking – lontano da Hollywood capita che non tutte le storie terminino con un lieto fine – ma il documentario si chiude nel modo in cui non ti aspetti, con Puppo che raggiunge l’ex tennista a Montecarlo – e il contrasto è duro e ispido, tra il Vilas aitante e nerboruto della gioventù e l’anziana figura, stanca e ingobbita, che ritroviamo in Costa Azzurra; i due non riescono a trattenere le emozioni dell’incontro, in una situazione che ormai esula completamente dal tennis, dalle statistiche e dai ranking, e che in fondo è, semplicemente, un abbraccio tra due vecchi amici.

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