Giudicato dalla nostra Giuria il migliore racconto tra quelli ricevuti, pubblichiamo il testo di Pietro Mini, vincitore del nostro concorso letterario

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di Pietro Mini

Hai cominciato ad ammetterlo, a te stesso e agli altri, con una serenità quasi spiazzante: per tutta la vita sei stato un pallettaro. Ciò che contava, quando impugnavi la racchetta e calcavi quei campi rosso mattone, era non sbagliare mai. Non sai, oggi, se il tennis ti piacesse davvero. Forse era solo lo sport che ti riusciva meglio, forse era solo l’attività in cui riuscivi a sbagliare di meno. Era questo il modo in cui vivevi, tutto qui. Una vita sostenuta dal traballante filo della contraddizione: «se non ci provo non rischio di fallire, e se non fallisco posso ancora sognare di provarci e poi riuscirci, un giorno». Questo pensiero, che non è autosabotaggio perché autosabotarsi implica agire nel mondo esterno, modificarlo, cambiarlo per impedire a se stessi di fare qualcosa che ci faccia stare bene, ma è immobilità, inazione, impassibilità, non è altro che un istinto naturale, un evidente caso di necessità di sopravvivenza: per essere rispettato, amato, ripagato, dovevi fare ciò che gli altri si aspettano da te. E per farlo, continuavi a portare avanti questa lotta disperata e irrazionale; la lotta contro l’errore, la lotta contro le imperfezioni della vita. Ancora ricordi quei pallonetti che arrivavano a toccare il cielo per poi scendere verso il campo con infinita lentezza, quei colpi remati per difendere l’indifendibile, quegli attacchi interlocutori, spesso inefficaci ma mai fuori luogo, in seguito ai quali tornavi velocemente sulla linea di fondo.

In fondo quello era il tuo gioco, e molto spesso funzionava. «Il tempo invecchia in fretta» ti disse quel tuo avversario dal tocco beffardo che era riuscito a neutralizzare completamente il tuo gioco, come se ti conoscesse da sempre. Quanto potere hanno le parole, e come riescono a cambiarti, a plasmarti. Basta un attimo a farci intraprendere nuove strade, nuove scelte, nuove vite. La vita è troppo breve per passarla a cercare di non sbagliare, così, cominciasti a colpire: attacchi di dritto, attacchi di rovescio, schiaffi al volo, volée, demivolée, vincenti, errori gratuiti. Quanti errori gratuiti. Un tempo non potevi neanche contemplarne l’esistenza, ora ne commettevi molti. Come nella semifinale del torneo sociale, quando sul 40 pari avevi il gioco in mano e le accelerazioni che davi alla palla erano insostenibili per il tuo avversario. Avresti potuto continuare ad attaccarlo senza rischiare troppo, ma cercasti l’incrocio delle righe con un rovescio lungo linea. La palla uscì, con la disperazione del tuo allenatore che cercava di spiegarti che non stavi giocando il tuo tennis. Fu quello il primo momento in cui ti sei innamorato davvero del tennis, fu quello il tuo colpo di fulmine. Perché il tennis è come la vita, e dopo ogni punto lo scambio ricomincia. Dopo ogni partita, vinta o persa, ce n’è sempre un’altra all’orizzonte. Perché hai imparato che, quando ti rialzi dopo una caduta, non lo fai per non cadere più. Lo fai perché rialzarti ti fa battere forte il cuore.