L'accantonamento dei bonus point è arrivato assieme al nuovo secolo, scomparsi insieme ai "Best 14", ossia i migliori quattordici risultati di un tennista nell'arco dell'anno solare valevoli per il ranking. Dal 2000 si è passati all'introduzione dei "Best 18" con obbligatorietà riguardante gli Slam, i Masters 1000 (tranne Montecarlo) e quattro Atp 500. Prima della nuova denominazione delle categorie di tornei, infatti, vigeva una grande diversità tra Championship Series e World Series per quanto riguarda i punti assegnati in base al montepremi dell'evento: in un Championships Series si spaziava dai 360 ai 250 punti al vincitore, in un Word Series da 250 a 130. La riforma del 2009 ha fatto sì chiarezza dividendo il circuito in "1000", "500" e "250" ma ha scelto di privilegiare i piazzamenti rispetto ai singoli exploit. Ci si chiede come sarebbe la classifica di uno come Nick Kyrgios, già capace di battere per undici volte in carriera un top-5: l'ottavo di finale vinto sul numero 1 Nadal con il Centre Court di Wimbledon come teatro gli sarebbe valso la bellezza di 280 punti (180 + 100 di bonus). O del ranking di Stan Wawrinka, vittorioso per cinque volte in carriera contro il primo delle classifiche del momento, tre di queste per altro in una finale Slam.
Se da un lato i "pro" a favore di questo sistema sono indiscutibili (compreso lo stimolo a non partire già battuto per gli outsider), tra i "contro" c'è l'innegabile complicazione delle classifiche già basate su un sistema a tratti cervellotico. Al momento dell'abolizione dei bonus point c'era alla base probabilmente l'idea di rendere il ranking più "pronosticabile" e meno aperto a variabili impazzite di un giorno o di una settimana. Con buona pace di chi al primo turno in uno Slam la spunta su Nadal invece di un lucky loser fuori dai primi 300 al mondo, almeno per il momento.