Quando finisce il colpo, se il fotografo è puntuale e fortunato, sembrerà di rivedere in quello scatto Baryshnikov o Nureyev: un ballerino sospeso nel tempo e nello spazio, appeso a un equilibrio misterioso. L'atleta è appena più vestito, e si direbbe meno elegante, nei colori commerciali e spersonalizzano il tennis: ma quel gesto è il documento che, una volta vistato, restituisce Denis Shapovalov nella sua pienezza, nella sua necessità. Fu con il suo rovescio (e quello fraterno e speculare - destrorso, più ponderato ma ugualmente armonioso - di Stefanos Tsitsipas) che cominciammo il 2017, in un articolo che indagava questi indizi di resistenza della specie: «È il nostro essere uomini classici, unico modo di difenderci dal tempo, unica ricchezza che ci rende immortali in quanto immutabile. E quando un gesto ci conferma che siamo ancora in possesso di una mappa altrimenti perduta, siamo disposti a ingannarci, per crederlo. E allora il rovescio a una mano diventa un documento di sopravvivenza universale. Per questo lo vogliamo, lo cerchiamo, e siamo affezionati ai pochi ma tenaci esemplari, che finiamo per tifare, così come tiferemmo la vita, perché in fondo è un indizio della nostra stessa vita: vogliamo riconoscere qualcosa di perdurante nei tempi moderni, difendere questa apparizione nell’età del consumo come difenderemmo noi stessi dall’estinzione e solo dalla messa a riposo delle nostre illusioni. Abbiamo bisogno di confortarci con queste notizie, che ci concedono la possibilità negata dalla natura: sopravvivere». Cominciò così, il 2017. Finisce con quegli indizi divenuti realtà, con la speranza diventata sostanza. Undici mesi dopo, seguendo quelle tracce, siamo sopravvissuti, anzi, siamo vivi, vegeti e illusi. Il neo maggiorenne s’è fatto posto, anche con quel senso di colpa per essersi dapprima mostrato con una stizzita reazione che spedì la palla nell’occhio di un giudice di sedia. Quello scandalo così innocente nelle intenzioni e così imbarazzante per l’uso che di ogni cosa viene fatto nell’epoca dell’informazione diffusa e istantanea, lo ha costretto a rimediare. A fronteggiare il suo lavoro, gli avversari di un domani arrivato subito, perché ormai il nome era pubblico, con esso il talento e insieme quella disonorevole pubblicità. È accaduto allora qualcosa di precoce, e non poteva sfuggire - con il suo avvento - anche una certa visione del mondo, per essere modesti. Il suo tennis è maleducato: in uno sport che raduna ormai molti ultratrentenni, rinfaccia la giovanissima età. Va incontro alla palla con la spensieratezza di chi vive divorando gli istanti, colpisce come chi non pensa al domani, per sovrappensiero, per abbondanza di presente o per mancanza di passato. Senza calcolo e senza rimorso. Non teorizza ma incide sulla materia senza riguardo e senza domande. Costruisce per scoria di altre intenzioni, più pure, meno corrotte. Shapovalov gioca come s’affronta la vita, a quella età.