IL COACH, VINCENZO SANTOPADRE: «IL TENNIS È UNA MARATONA, NON I 100 METRI»

Con Matteo Berrettini ha intrapreso un viaggio fin da quando era ragazzino e che lo sta portando lontano: «Non posso dire di essere stupito dei suoi progressi, forse sono troppo crudo ma mi aspetto di tutto, da lui. E lui mi ha aiutato a pensarla così»
«Con Matteo prima ero un maestro, poi un allenatore, adesso un coach». Vincenzo Santopadre, classe 1971, ex numero 100 del mondo vent’anni fa, fino a ieri l’altro si divertiva a mandare al manicomio ragazzi con la metà dei suoi anni, in Serie A, col suo tennis di traiettorie e giocate pensate. Adesso è guida di Berrettini a tempo pieno. Nel box giocatori, si porta dietro il borsone da cui spunta la vecchia Head Prestige con cui batté Guga Kuerten e Magnus Norman; vive il match (il primo turno dell’ATP di Marsiglia contro Jeremy Chardy, con pubblico corretto ma ostile) con una presenza laterale, mai urlata, che Matteo cerca con lo sguardo pressoché dopo ogni punto. Un esserci garbato, anche nei momenti di tensione: «Hanno mandato Occhio di falco per errore sullo schermo, Matteo, tranquillo, la palla era fuori». Il resto del frasario è essenziale e con una chiara distinzione di ruoli: «Decidi tu, quando scafonare col dritto»; «Da destra, sulla seconda, se vuoi, carica, fatti sentire» (sì, è coaching ed è vietato. E lo fanno sostanzialmente tutti gli allenatori, in ciascuna partita); «Se te la senti, entra»; «Dagli fastidio con la posizione, fallo pensare»; «Dai, toro, toro! Dai, che lui è al limite».

Santopadre vede il tennis «come una maratona, non i 100 metri. A volte si può passare per menefreghisti, o all’antica, ma sono convinto che, se rispetti i tempi, riesci a gestire meglio le situazioni complicate. Secondo me, il tennis junior non è il tennis: se l’obiettivo è diventare numero uno under 18 è un conto, ma se devo creare un giocatore professionista, allora il percorso è più lungo. Oggi c’è un meccanismo perverso che ti porta ad accelerare i tempi, invece a me piace rispettarli con equilibrio: Matteo, per esempio, era in ritardo fisicamente e andava pure bene a scuola, un anno parlai col padre quando forse era già pronto per il passaggio. Ma gli feci aspettare un altro po’: solo a 17 anni ha aumentato l’attività junior, e a 18 è riuscito a fare gli Slam che, invece, anche da under 18 sono utili».

La pazienza e il saperci vedere lungo hanno contribuito in maniera determinante a creare il più solido e vincente giovane italiano da tanto tempo a questa parte. Uno su cui scommettere, ma sul serio. «Da junior non importava vincere: i tornei vanno fatti, certo, perché la gestione di tensione e agonismo la alleni solo in torneo. Ma devi saper miscelare le cose, come un cuoco. Adesso, che è un giocatore, ovviamente i tempi per allenarsi sono ristretti: puoi ovviare facendo in modo che durante il torneo tutto, anche il riscaldamento, venga interpretato come allenamento. Matteo ha vissuto sempre le cose in modo spugnoso, è stato eccezionale. Però non posso dire di essere stupito dai suoi progressi, forse sono troppo crudo ma mi aspetto di tutto, da lui. E lui mi ha aiutato a pensarla così». I capisaldi del lavoro di coach Berrettini sono il servizio, i colpi di inizio gioco, e non fossilizzarsi su ciò che si sa già fare. Quella varietà di gioco che sembra estinta: «Non è impensabile giocare a tutto campo. Più cose sai fare, meglio è. Sicuramente il tennis di oggi va a velocità centuplicata, l’azione è più svelta del pensiero. E un back di rovescio può sembrare antico: ma se lo usi bene, serve. Anche le palle corte: per ora le fa piuttosto male, però le fa e sono contento che le usi». Ma, al di là degli ace e dei servizi vincenti che arrivano quasi sempre quando conta, e dei dritti che sfondano di rimbalzo i cartelloni pubblicitari, il suo Matteo sembra avere quel qualcosa in più che solo i migliori si portano dietro. La capacità di resistere al dolore e alle frustrazioni che un tennista vive trenta volte a partita, salve le rare giornate di grazia, e di trovare sempre una via di uscita: «È così e a me piace che, in campo, ci siano giocatori pensanti, che sappiano leggere le situazioni, interpretare i tempi del match. Bisogna saper fare la partita, perché un conto è saper giocare a tennis, un altro è essere giocatori di tennis. Ci sono colpitori fantastici che, magari, non hanno capacità emotiva, non sanno cogliere i momenti. Come si allena tutto questo? Eh, è uno dei tanti talenti. Puoi averlo di tuo, ma va sperimentato: l’avversario, in fondo, è uno strumento che ti mette alla prova, è uno che ti pone problemi. Se tu hai tante soluzioni riesci a dare risposte, a risolverli e rimandargliene altri per cui, forse, lui non è attrezzato».

La partita con Chardy è una lotta. Al sesto set point, annullato con il colpo meno sicuro, un passante di rovescio lungolinea, Matteo si gira verso il coach e gli fa segno che non ce la fa a respirare bene, che sente un peso sui polmoni. «Fatti dare qualcosa dal medico», gli risponde lui, serafico. Poi si gira, in modo da non farsi sentire, e aggiunge che «tutta la settimana è stato male, si è allenato sì e no un’ora. Ma adesso deve spingere fino alla fine, senza scuse. Noi non è che ce ne laviamo le mani, anzi, siamo qui con lui e per lui, ma in campo è lui ad andarci. Glielo ricordo sempre: noi siamo la squadra, ma il gioco è una cosa tua».

Dopo due ore, Berrettini vince - tossendo – 7-6 7-6, contro il numero 33 del mondo, che giocava pure in casa. Si volta verso Santopadre e unisce le mani ad anello sul petto: «Ho un cuore grosso così!» L’unica risposta del coach, in questo esordio assoluto all’Open 13 già vinto da Federer, del Potro e Murray, è un sorriso. Quello di chi rivede un bel film, di cui sa già il finale.
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