Quante volte anche noi, in campo, frustrati dagli errori, avremmo voluto compiere quel gesto…

Quante volte, nei campi da tennis dei club di qualunque luogo, città o nazione, dopo una serie di servizi sbagliati, di dritti imprecisi, di rovesci che si impennano oltre la rete, che però è quella sbagliata, alta, di metallo, la rete di recinzione, e la pallina che si perde nella boscaglia là intorno. Quante volte, mentre le stai prendendo da quello là di fronte, chi perde paga il campo, e ti incazzi perché lo sai bene che è molto più scarso di te. Quante volte avremmo voluto impugnare la racchetta come una clava e sbatterla ripetutamente a terra, spaccarla, distruggerla, farla a pezzi. Quante volte? Ho memoria di una finale del campionato italiano negli anni settanta (che non sono riuscito a rintracciare nelle ricerche su Google) in cui Adriano Panatta, in svantaggio credo contro Corrado Barazzutti – forse, o era Nicola Pietrangeli? – a un cambio di campo sbatte la racchetta di legno per terra o contro il paletto, e la distrugge. Ho sempre tenuto in mente quell’episodio nonostante l’imprecisione del ricordo, e ogni volta, spesso, molto spesso, che mi sono trovato in una delle condizioni che ho elencato, la mia racchetta la spaccavo sempre dentro di me. Ne ho mandate in frantumi migliaia, di immaginarie, e ovviamente nessuna di reale. Mica potevamo permettercelo, con tutto quello che costava una buona racchetta, e quando il legno iniziava a cedere, qualche crepa ad aprirsi, la richiudevi con la colla o con delle abbondanti arrotolate di nastro.

Per questo, credo, ogni volta, davanti a un professionista che distrugge volontariamente la sua racchetta in campo, la sensazione è ambivalente. Da una parte sta facendo ciò che avremmo sempre voluto fare anche noi, dall’altra il pensiero di quanto ci sarebbe piaciuto giocare con quel rottame però intatto. La racchetta spappolata di Daniil Medvedev l’altra notte a New York, per dire, fatta a pezzi con una meticolosità scientifica e anche un po’ isterica. No, meglio continuare a immaginare di spaccarle, noi, le nostre racchette.

Roberto Ferrucci è nato a Venezia (Marghera) nel 1960. Ha esordito nel 1993 con il romanzo “Terra rossa”, pubblicato da Transeuropa, e in quegli anni ha scritto spesso per “Il Tennis Italiano”. Il suo ultimo libro “Il mondo che ha fatto”, che racconta la sua amicizia con lo scrittore Daniele Del Giudice, è stato pubblicato nel 2025 da La nave di Teseo e candidato da Claudio Magris al Premio Strega. Scrive per i quotidiani di Nordest Multimedia e su La Lettura del “Corriere della Sera”. Dal 2002 insegna Scrittura creativa alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova, conduce laboratori di scrittura in Italia e Francia. Per Helvetia Editrice dirige la collana “Taccuini d’autore”.