Anche una finale persa e quasi non giocata contiene un insegnamento

foto Ray Giubilo

Per tutto il giorno, lunedì scorso, c’era da tenere a mente che la sera, ci sarebbe stata la finale di un Masters 1000. È agosto, tanti sono ancora in ferie, ma è pur sempre lunedì, e le finali, si sa, si giocano la domenica. La quarta finale dell’anno fra i due più forti di tutti, Jannik Sinner e Carlos Alcaraz e, nonostante l’immensa vittoria a Wimbledon, c’è ancora quel Roland Garros da mandare giù, oltre a un bilancio negativo che tutti vorremmo fosse pareggiato in fretta. Intanto, le telefonate per tenere a bada l’ansia con chi ne capisce di tennis, e ognuno convinto che stavolta Jannik Sinner sia favorito, forse addirittura nettamente favorito. C’era solo un piccolo dubbio, un granello di polvere però resistente, quel primo gioco del secondo set contro Terence Atmane, vinto a fatica ai vantaggi, una fatica che, al cambio di campo, costringe Sinner a tirar via il cappellino (cosa che non fa mai, nemmeno a fine partita), afferrare una bottiglia d’acqua e rovesciarsela in testa mentre, ansimando, cerca l’aria.

L’idiozia di programmare dei match di tennis in pieno pomeriggio con temperature che sfiorano i quaranta gradi. E in effetti, anche riguardo la percezione del calore, il bilancio fra i due è a vantaggio di Alcaraz, nato e cresciuto a Murcia, dove le temperature torride sono abituali, non certo come quelle di Sesto Pusteria o di San Candido. È e sarà impareggiabile, questo vantaggio.
La sera di lunedì, davanti alla tv, i rituali sono gli stessi come fosse domenica, la poltrona da campeggio a pochi metri dallo schermo (la miopia, hélas) la polo viola e i pantaloni verdi (Wimbledon, già), le scaramanzie che anche i tennisti da poltrona hanno, così come i tennisti veri (i sette palleggi per il primo servizio, e i cinque per il secondo di Sinner, per esempio). Ogni partita di tennis, ce lo ha insegnato Gianni Clerici, è un romanzo sempre nuovo, una drammaturgia mai scontata. E le partite di Jannik Sinner, per noi, lo sono ancora di più. Entrano i due nello stadio, il sole e 11600 mani che sventolano qualunque cosa permetta di far spostare anche minimamente l’aria. È facile scriverlo adesso, ma appena la inquadrano, la faccia di Jannik Sinner non è la sua solita, il pallore non è per nulla quello della sua carnagione.

Al sorteggio sceglie di servire. Serve, e non vince un solo punto. Avanti così, per venti minuti. Il nulla. Anche le solite due righe di Daniele Del Giudice, tratte da Lo stadio di Wimbledon, che ogni volta mi tornano in mente, stasera si inceppano anche loro, “…la palla avrà tracciato un otto orizzontale tra un giocatore e l’altro, come il segno dell’infinito. Si tratta di tramare contro quel movimento perpetuo con lo stesso colpo con cui bisogna ricucirlo”. L’essenza del tennis. I colpi dal suono unico e irripetibile di Jannik Sinner. Niente. Nessuna trama, stavolta, pochissimi otto, incompiuti, e tutto finisce in fretta, troppo in fretta.
Eppure, dopo lo sconcerto, dopo la preoccupazione e la delusione, rimane un’altra storia di tennis da raccontare. Perché poi pure la vita è un romanzo, ed è fatta di alti e di bassi, e anche chi sembra invincibile, alla fine non lo è. È stata la fragilità a trionfare, lunedì scorso, nel catino incandescente di Cincinnati. Il volto pallido di Jannik Sinner. Una fragilità degna di essere raccontata, come un trionfo.

Roberto Ferrucci è nato a Venezia (Marghera) nel 1960. Ha esordito nel 1993 con il romanzo “Terra rossa”, pubblicato da Transeuropa, e in quegli anni ha scritto spesso per “Il Tennis Italiano”. Il suo ultimo libro “Il mondo che ha fatto”, che racconta la sua amicizia con lo scrittore Daniele Del Giudice, è stato pubblicato nel 2025 da La nave di Teseo e candidato da Claudio Magris al Premio Strega. Scrive per i quotidiani di Nordest Multimedia e su La Lettura del “Corriere della Sera”. Dal 2002 insegna Scrittura creativa alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova, conduce laboratori di scrittura in Italia e Francia. Per Helvetia Editrice dirige la collana “Taccuini d’autore”.