La sconfitta di Sinner in finale al Roland Garros dopo 5 ore e 29 minuti di lotta e tre match point non sfruttati è una ferita che faticherà a rimarginarsi. Ma come Jannik ci insegna, è già tempo per lui di pensare alla prossima arena e per noi di riflettere sulla favolosa rivalità con Alcaraz

foto Ray Giubilo

Smettiamola di piangere: come dice Jannik Sinner, piangere non porta da nessuna parte.
Jannik ha giocato una gran partita, l’ha persa contro un avversario enorme, invece di inveire contro il destino cinico e baro, di cercare scusanti e lenitivi, di invocare oscure congiure dovremmo ringraziare entrambi di averci fatto assistere ad uno spettacolo quasi stordente per bellezza, emozioni, sorprese.

Cinque ore e 29 minuti che mi hanno ricordato le finali di Wimbledon del 2001, 2008 e del 2019, quella di Melbourne del 2012, quella di Parigi del 2015. Federer, Nadal, Djokovic, Wawrinka, Ivanisevic, Rafter, buttiamo tutti questi nomi nell’acqua di cottura della memoria, il sapore che otterremo sarà quello della leggenda, della storia del tennis, lo stesso che abbiamo assaggiato ieri sul Philippe Chatrier.
Jannik non ha sfruttato tre matchpoint, e forse è il contrappasso dei tre salvati contro Djokovic in Coppa Davis, è il destino che ritorna beffardo, è la legge del tennis che si ripete, ogni volta diversa, perché anche il match di ieri è stato diverso, unico, credo irripetibile. Perché il tennis di ieri è diverso da quello di oggi e invocare gli stessi parametri di giudizio è fuorviante, un po’ miope davanti a spettacoli del genere.

Alcaraz ha messo in campo colpi difficilmente compatibili con l’anatomia umana, anche Jannik non ha mollato quando tutto era perduto, nessuno sceneggiatore avrebbe saputo immaginare un plot del genere – e sono sicuro che Dustin Hoffman e Spike Lee, che il match se lo sono bevuto tutto, increduli sia dell’interpretazione da Oscar dei due sia degli effetti speciali di un tennis iperuranico, ne prenderanno spunto.

A noi italiani brucia, certo: avevamo già fatto la bocca al sogno di Grande Slam. Ma anche nella sconfitta, forse soprattutto nella sconfitta abbiamo riconosciuto un campione enorme, un ragazzo vero come Jannik. E dobbiamo applaudire altrettanto Carlitos per quanto è riuscito a fare, per le miniere di desiderio che si è saputo scavare dentro.
E’ un romanzo nuovo quello che stiamo leggendo, pochi avrebbero creduto che fosse possibile trovare pagine del genere dopo vent’anni di capolavori scritti dai Fab Four o dai Big 3, decidete voi la sigla. Chiedere il passaporto a Moby Dick o ai Miserabili, a Madame Bovary o ai Fiori del Male, mi sembrerebbe altrettanto riduttivo che fare di Carlos e Jannik campioni solo spagnoli, solo italiani. Appartengono a tutti, e che il saggio dio del tennis ce li conservi a lungo.