Esce di scena al terzo turno un ottimo Matteo Gigante contro il più esperto Ben Shelton, consapevole che non sarà probabilmente l’ultima volta che calcherà questi campi

Nessun’altra superficie, come quella color mattone, regala ai giocatori sembianze a mezza via tra lotta e sofferenza. Al punto che, vincitori e vinti , non dovrebbero considerarsi tali se ,lasciando il campo a giochi fatti, non somiglino più a pesci infarinati che non a sportivi ben vestiti.
Non esistono altre macchie , come quelle rossastre del sudore misto a terra, capaci di rimandare all’immaginario collettivo il reale senso del combattimento.
Sommati a un linguaggio del corpo sottilmente esuberante, gli aloni possono dirla lunga sulle personalità schierate in campo e su chi ,tra i due , sia il più incline a dare il fritto.
Così, quando, nel ruzzolare pancia a terra, Ben Shelton aveva pensato di vincere un punto con fare più da stuntman che non da tennista, quanto era tornato sulle gambe era null’altro che lo specchio fedele di un match a senso unico condotto dall’americano di Atlanta a spese di un Matteo Gigante dall’aria un po’ dimessa.
In verità, l’eroico italiano non ne aveva più , avendo già dato fondo ai colori della lotta per uscire indenne dalle qualificazioni e avanzare fino agli ottavi del suo miglior Roland Garros.
Del coetaneo mancino d’oltre oceano, quello nostrano ha subito la potenza rabbiosa dei colpi , gesti compatti e incisivi grazie ai quali il georgiano può sguainare un tennis a tavoletta che odora per tutti di mina vagante.
Ciò detto, al nostro connazionale va riconosciuto il merito di aver fatto a tratti match pari tenendo sulla corda un giocatore con due titoli all’attivo e un gioco che non invidia nulla a quello dei migliori.
Nel confronto di ieri, il Gigante buono non ce l’ha fatta a sporcarsi più di tanto ma non mancherà occasione per poterlo fare al peggio. Alle brutte, potrà sempre consolarsi risparmiando sulla lavanderia