(*) La carta d'identità dice che ha 21 anni, ma Stefano Napolitano è decisamente più maturo della sua età. Anni fa era un fanalino di coda, oggi guida la Next Generation italiana. “In Italia c'è la cultura del 'tutto e subito'. A me non interessa, ma non mi accontento: mi piace investire su chi mi sta accanto”. Proprio come fa un certo Milos Raonic...
Anni fa, tuo padre disse che voleva costruire un buon giocatore, ma soprattutto un uomo come Dio comanda. Pensi che ci stia riuscendo?
Oddio, dovresti chiederlo a lui. Per fortuna ripete spesso di essere soddisfatto, e con qualche piccolo gesto me lo fa capire. Credo che sia contento perché sto seguendo il percorso che avevamo stabilito quando ero piccolo. Inoltre sto conseguendo qualche buon risultato, quindi spero che possa essere soddisfatto su entrambi gli aspetti.
Vivere il miglior momento in carriera significa anche ricevere tante attenzioni. Per te è la prima volta: come ti trovi, come le stai gestendo?
E' vero: in Italia c'è la ricerca quasi disperata di qualche nome che possa sostituire i vari Seppi, Fognini, Lorenzi e Bolelli, o magari un top-10. Per questo, appena un giovane cresce in classifica si creano aspettative più alte. Si percepisce, ma per me e il mio team non cambia niente: lavoriamo allo stesso modo, solo con un po' di consapevolezza in più. E siamo anche consapevoli che ci sono un sacco di aspetti su cui migliorare. C'è ancora tantissimo lavoro da fare, siamo appena all'inizio.
A Ortisei non hai mai perso il servizio, inoltre sei cresciuto molto in risposta. Dovessimo chiederti qual è il tuo punto di forza, cosa diresti?
Il mio colpo naturale è sempre stato il rovescio. Con la risposta mi sono sempre trovato a mio agio, poi a Ortisei c'erano condizioni particolari, dove il servizio e il gioco di volo avrebbero potuto rendere qualcosa di più. In effetti si sposavano bene con il mio gioco e ha funzionato tutto a dovere.
Quest'anno hai ottenuto buoni risultati un po' su tutte le superfici. Che tipo di giocatore stai diventando? A chi potresti assomigliare tra i top-players?
Mi piace giocare un po' dappertutto. Storicamente faccio più fatica sulla terra, anche per ragioni fisiche, ma i risultati di quest'anno mi hanno dato un pizzico di convinzione in più. Tra tornei in altura e campi molto lenti, mi sono adattato a diversi tipi di situazioni: è un aspetto molto positivo. Non sarò mai un giocatore “alla Nadal”, puramente di corsa. Quindi mi piacerebbe spingere per diventare un giocatore in grado di vincere sul cemento. Perché no, anche sull'erba.
Che immagino annuserai per la prima volta nel 2017.
Beh, fino a Wimbledon non ho molti punti da difendere, quindi se anche non dovessi raccogliere niente dovrei poter giocare le qualificazioni. Ma il mio obiettivo, ovviamente, è mettermi il prima possibile nelle condizioni di giocare nel tabellone principale.
Ci descrivi il tuo staff tecnico? Dove ti alleni, chi ti segue in particolare?
Dal punto di vista tennistico mi segue Cristian Brandi, anche se mio padre continua a fare parte del team. I due collaborano, ma il responsabile è Cristian. Quest'inverno ho cambiato il preparatore atletico: adesso mi segue un giovane ragazzo croato, di Spalato, si chiama Dino Roguljic. Abbiamo iniziato durante la preparazione invernale. Il fisioterapista si chiama Pierpaolo Bruzzi. Inoltre c'è un ragazzo di Torino, Antonio Sacco, che mi segue sotto il profilo mentale. Insomma, quattro persone più mio padre.
A proposito di papà Cosimo: a 10 anni il padre lo si vede in un modo, a 17 in un altro...e a 21?
Mi conosce meglio di tutti. Abbiamo vissuto un sacco di esperienze, sono cresciuto con lui, settimana dopo settimana. Conosce ogni dettaglio del mio carattere. Adesso mi segue un po' meno nei tornei, ma riesce sempre a capire quello di cui ho bisogno. Avere un punto di riferimento come lui mi trasmette molta serenità. Inoltre credo che sia molto capace anche sul piano tecnico, visto che da anni collabora con lo staff di Bordighera (Brandi, Sartori, Piatti). Insomma, oltre ad essere preparato, mi conosce come nessun altro. E' un punto di riferimento molto importante.
Però oggi non ha più l'esclusiva responsabilità tecnica della tua crescita. Questa cosa ha portato dei benefici?
L'arrivo di Cristian ha alleggerito sia me che lui da alcune tensioni, inevitabili tra padre e figlio, specie quando si sta insieme ogni giorno, a tutte le ore. Brandi ha portato nuove informazioni: magari sono le stesse, ma se è dirle è un esterno le recepisci in modo diverso. Nel complesso, siamo entrambi più sereni. Riusciamo a prendere il meglio l'uno dall'altro, al 100%. Inoltre lui deve gestire un circolo importante come “I Faggi” di Biella, compito tutt'altro che semplice. Insomma, sono “coperto” in ogni senso: si lavora sul piano tecnico con Cristian e c'è grande serenità con mio padre.
Appena avete iniziato a lavorare con Brandi, ha detto che dovevi migliorare sul dritto e sulla ricerca della rete. Come procede?
Abbiamo lavorato parecchio sotto il profilo tecnico. Abbiamo cambiato diverse cose e ho aggiunto un po' di sicurezza ai fondamentali. Dritto, rovescio, ma anche servizio. Poi lui è molto bravo sul gioco di volo. Queste cose vanno provate e riprovate in allenamento, ma poi devi portarle in partita. E' il passaggio più complicato perché entra in gioco l'aspetto mentale. Stiamo spingendo in questo senso e mi sembra che ci sia stato un passo in avanti. Sappiamo entrambi che si possono migliorare ancora tante cose.
Fino a qualche anno fa, tu eri considerato un po' “l'ultimo” nella nuova generazione di ragazzi italiani: ti stavano davanti Donati, Quinzi, Baldi, a un certo punto anche Mager...però sei stato il primo a vincere un Challenger. Esiste un pizzico di sana rivalità con i tuoi coetanei?
La competizione fa bene a tutti. Siamo molto competitivi e credo che nessuno voglia restare dietro. Si lavora sempre di più e sempre meglio per arrivare in alto. In Italia c'è un problema: la cultura del risultato, del volere tutto e subito. Sin da piccolo, insieme a mio padre, io ho effettuato un altro tipo di percorso. Non mi sono mai preoccupato di chi arriva prima, ma ho pensato (e sto pensando) soltanto ad arrivare il più in alto possibile. Essere reputato “uno degli ultimi” non è mai stato un problema. E oggi non mi sento “uno dei primi”, visto che sono ancora molto lontano dall'obiettivo. E poi non sottovaluterei gli altri, anche quelli non menzionati: magari quest'anno Eremin fa una grande stagione e tutti a dire: “Ah, è arrivato Eremin”. Bisogna pensare al lavoro e ai progetti sul lungo termine.