
E pensare che solo un paio d’anni fa, nell’elenco dei possibili talenti italiani del futuro, il nome di Berrettini non figurava nemmeno. L’attenzione degli appassionati era su altri talenti, da Quinzi a Baldi, da Napolitano a Donati, mentre per il romano sembrava dovesse esserci poco spazio. Ma il bello del tennis, in giovane età, è che a volte basta poco per sovvertire gli equilibri, e i percorsi più veloci non sempre risultano i più azzeccati. Il caso di Berrettini ne è la più limpida dimostrazione: fino al marzo del 2015, quando – per rendere l’idea temporale – i dubbi sul reale valore del suo coetaneo Quinzi iniziavano già a farsi sempre più fitti, ai suoi 193 centimetri non era ancora accoppiato un ranking ATP, vista la scelta di dare priorità all’attività juniores per raggiungere l’obiettivo di giocare i tornei del Grande Slam, dove respirare l’aria del tennis che conta per davvero. Poi, centrato quel traguardo, è iniziata una scalata impressionante che nel giro di pochi mesi l’ha visto lasciare il gruppo delle seconde linee per diventare il leader dei più attesi, e mostrare non solo di essere il più vincente, ma anche (o soprattutto) il più costante e il più concreto, in barba a chi l’aveva sempre considerato meno degli altri. Fare paragoni non è mai piacevole, ma nel tennis parlano i risultati, e in questo caso servono a rendere l’idea della situazione. A livello Challenger gli altri giocatori della “NextGen” azzurra hanno messo insieme due finali, una vinta da Napolitano e l’altra persa da Donati, mentre il ventunenne della Capitale ne ha raccolte quattro da solo, tutte negli ultimi nove mesi. Ha perso le prime due, nel 2016 ad Andria e quest’anno a Quanzhou, poi ha conquistato a luglio l’appuntamento di San Benedetto del Tronto, che ha dato il via al suo miglior periodo in carriera.

La mancanza di attenzioni degli anni scorsi ha permesso a Berrettini di lavorare a fari spenti insieme a coach Vincenzo Santopadre, l’unico fra gli ex top-100 azzurri a seguire a tempo pieno uno dei nostri giovani (sarà un caso che sia diventato il migliore?), fissando obiettivi a lungo termine e sfruttando le pause imposte da un fisico ballerino per crescere dentro e fuori dal campo. Nel 2016 il ginocchio l’ha fermato per sei mesi, e al rientro sembrava già un altro giocatore, mentre a giugno la caviglia gli ha imposto uno stop di cinque settimane, e lui si è vendicato vincendo al rientro il suo primo titolo Challenger. A inizio stagione, memore dei problemi dello scorso anno, giurava di non avere obiettivi, e di puntare solamente a star bene fisicamente. Ma quando la manodopera è di qualità, il prodotto finale non può che essere ottimo. Di Berrettini piace tutto: il servizio che arriva tranquillamente ai 220 all’ora, il diritto che fa esplodere la palla e un rovescio che continua a migliorare, ma anche la capacità di giocare allo stesso livello su tutte le superfici, più il carattere e il modo di stare in campo, tre aspetti che nel tennis di oggi valgono oro. E poi ancora la continuità che nel 2017 sta diventando una fedele compagna, come il ranking non perde l’occasione di ricordare, e anche una programmazione perfetta. I risultati dicono che giocare sul cemento per iniziare in anticipo l'avvicinamento alle qualificazioni dello Us Open (il suo primo Slam) è stata la scelta corretta, e confermano che i pezzi del puzzle che serve a comporre un ottimo giocatore ci sono tutti. Piano piano stanno andando al loro posto, e il bello è che, dicono Berrettini e Santopadre, la completa maturità fisica dovrebbe arrivare solo fra qualche anno. Se fosse davvero così, ci sarà da divertirsi. E pure da sorridere, ripensando a quella finale Challenger gettata al vento con un doppio fallo.
