Noah Rubin, giocatore americano di 23 anni, attualmente numero 144 ATP, ha creato un profilo Instagram dove diversi giocatori, anche poco conosciuti, hanno condiviso episodi spesso drammatici. C’è chi ha ammesso la sua balbuzie, chi i suoi problemi di depressione, chi era diventata paranoica per il proprio peso, chi ha dovuto lottare per emergere e chi ha affrontato il problema del razzismo. Tutti fotografati col viso dietro la propria racchetta. Perché dietro giocatori e giocatrici ci sono sempre uomini e donne con una storia da raccontare«Stavo guardando un documentario su Netflix alle tre e mezza del mattino e qualcosa è scattato quando mi sono imbattuto in Humans of New York», un photoblog diventato docuseries dove degli sconosciuti vengono intervistati nelle strade della Grande Mela. Da quell’idea, Noah Rubin, 23 anni, americano di Long Island, N.Y., numero 144 ATP, ha creato Behind the Racquet, una pagina Instagram dove i giocatori vengono fotografati con la racchetta davanti al viso e raccontano la loro storia, le insicurezze che provano, le difficoltà che devono superare. «È un’opportunità per conoscere la persona dietro l’atleta – ha spiegato Rubin, sorpreso dalla reazione dei suoi colleghi -. Volevo far conoscere le loro storie ma avevo anche paura di offendere la loro sensibilità chiedendo di parlare di loro se stessi ai fans. Invece si sono aperti in maniera incredibile». Rubin ha cominciato raccontando la sua storia e «la paura di deludere le persone più care che credono in me e che hanno sacrificato tanto per aiutarmi ad arrivare dove sono adesso». Altri hanno subito seguito l’esempio, raccontando paure che fin qui avevano tenuto per sé. Per esempio, Ernesto Escobedo, 22 anni, americano di origini messicane, numero 229 ATP ha confessato di «essere balbuziente. Le ho provate tutte sin da quando ero bambino, cercando di migliorare questo difetto ogni giorno. Per questo non amo troppo parlare. Crescendo, soprattutto nel mondo del tennis, la gente è molto critica: tanti non ti parlano in faccia, ma sapevo che ridevano di me. Ho imparato a convivere con questo problema, ma provo continuamente a migliorare perché è qualcosa che non si schioda dalla mia mente. Se c’è una persona con la quale mi sento a disagio, fatico a parlarci insieme. Non sono particolarmente timido ma mi trattengo perché non voglio che gli altri ridano di me. Per questo sono piuttosto tranquillo nei tornei, sto col mio team e basta. Tutti hanno dei fastidi ma so che il mio un giorno sparirà».
Saschia Vickery, 23 anni, anche lei americana, ha dovuto lottare per diventare professionista: «Nel 1987, mia madre è emigrata dalla Guyana in cerca di una vita migliore. A un certo punto, faceva tre lavori per riuscire a farmi giocare i tornei. E, nonostante questo, in qualche modo è sempre riuscita a farmi avere una chance per emergere. Viaggiare da sola era complicato ma anche l’unica strada di cui disponevo. Dovevo assolutamente vincere per potermi permettere di partecipare al torneo successivo e in pochi credevano in me, fin quando non ho vinto alcuni incontri importanti. Mi hanno sempre detto che ero troppo piccola o che il mio tennis non era abbastanza potente per arrivare tra le top 100. Poi, nel 2013 ho vinto i campionati nazionali in singolo e doppio e così ho conquistato una wild card per lo US Open. Prima di quella finale, non avevo nemmeno i soldi per comprarmi la colazione. Provai a chiamare mia madre ma mi avevano tagliato la linea perché non avevo pagato la bolletta. Avevo paura a parlarne perché non volevo passare per lo stereotipo della povera ragazza nera o come un caso da beneficenza. Ero così nervosa che ho vomitato prima del match perché perdere avrebbe probabilmente significato la fine della mia carriera. Dopo aver vinto quella partita, tutti si sono congratulati ma se solo avessero saputo cosa era successo due ore prima! Ero la quinta miglior giocatrice junior del mondo e non avevo nemmeno i soldi per fare colazione. Solitamente sono abbastanza riservata ma non ho nulla di cui vergognarmi. Superare quelle sfide mi ha aiutato a capire che non c’è nulla che non possa affrontare, in campo e fuori. Anche adesso che vivo una condizione ben diversa, non mi accontento mai. Voglio solo il meglio».Tra gli interventi, anche quello di giocatrici da finali Slam come Madison Keys: «Quando avevo 15 anni, ho avuto seri disturbi alimentari. C’erano persone che mi vedevano in tv e mi dicevano che ero grassa e, alla fine, quest'idea mi è entrata in testa e vivevo mangiando tre barrette da cento calorie. È un problema che mi sono portata dietro per quasi due anni, con qualche attacco di depressione e tenendo mia madre e gli amici lontano da tutto questo. Mi mettevo una maschera tutti i giorni, nella speranza che nessuno mi chiedesse nulla. Ero diventata paranoica perché volevo tenere la questione segreta e non preoccupare nessuno. Fino a quando ho capito che stavo distruggendo il mio tennis perché non potevo allenarmi nemmeno una settimana di fila perché non avevo energie. Mi sono lasciata influenzare dalle persone, rischiando di non realizzare il sogno che avevo da sempre. C’è voluto tempo per superare il problema e, ancora adesso, ci devo lottare quando sono delusa o sotto stress. Ma finalmente ho una relazione molto più sana col cibo».Ancora più drammatica la confessione di Nicole Gibbs, 25 anni, americana di Cincinnati, Ohio: «Ho sofferto di depressione fin dalla mia adolescenza. Ho deciso di raccontare la mia storia in un articolo sul Telegraph all’inizio del 2018: era qualcosa a cui stavo pensando da anni. Nel 2016, il miglior anno della mia carriera, scrissi un post per il mio blog, che però non ho mai pubblicato: “Sono seduta in uno spogliatoio pieno di gente, guardo il muro con un asciugamano a nascondermi la faccia, in modo che nessuno possa vedere le lacrime che scendono. Una persona addetta ai controlli anti-doping è in piedi davanti a me: dondola goffamente a destra e sinistra, aspettando di capire quale sia il momento migliore per chiedermi di firmare il consenso al test. Se ne sta lì da mezz’ora e quasi non mi accorgo della sua presenza. E, anche in una situazione per me così difficile, mi sento in colpa. Dubbi e domande mi girano per la testa costantemente: perché ti innervosisci così tanto?. Perché non hai giocato il tuo miglior tennis?. Qualcuno che vuole diventare una campionessa, può soccombere così alla pressione. E poi la domanda che mi perseguitava più di ogni altra: sei la numero 71 del mondo, stai giocando il Roland Garros a Parigi, perché ti senti così infelice?. So cosa state pensando: una tennista inevitabilmente soffre subito dopo aver perso un match lottato in tre set in uno degli eventi più importanti della stagione. Ma, in realtà, non avevo passato un singolo momento felice nelle ultime settimane”. La meditazione, uno stile di vita sano, qualche medicinale e un solido sistema di sostegno mi avevano aiutato tantissimo negli ultimi tre anni; tuttavia, c’erano ancora giorni in cui facevo fatica ad alzarmi dal letto. Il senso di colpa e di vergogna per non essere forte a tennis com’ero una volta o l’ansia per quella che poteva essere la mia vita lontana dallo sport, consumava le mie energie mentali più di quanto volessi ammettere. Sto lavorando per essere più onesta con me stessa e le altre persone quando vivo dei momenti difficili, ma non è facile mostrare la propria vulnerabilità in un mondo così competitivo come quello del tennis pro».
Tanti altri tennisti hanno deciso di raccontare le loro storie su Behind the Racquet: Mitchell Krueger si è chiesto se sta facendo le cose nella maniera giusta, visto che altri stanno ottenendo maggior successo pur allenandosi meno duramente; Bjorn Fratangelo ha ricordato come la sua vittoria nel torneo junior di Roland Garros lo abbia messo al centro dell'attenzione senza essere ancora pronto a gestire una situazione del genere, mentre un giocatore particolarmente amato in Italia come Dustin Brown, tedesco che ha passato gli anni fino all’adolescenza in Giamaica, ha toccato un argomento molto importante come il razzismo. «Molti appassionati non sanno cosa vuol dire essere numero 100 del mondo – dice Rubin –, credono che sia tutto jet privato, suite al Ritz Carlton e match giocati davanti a 15.000 spettatori. Ma chi è classificato tra il numero 100 e 200 ATP, certe esperienze le avrà vissute due volte nella vita. Invece, la verità è che giochiamo in piccoli club, con pochi giudici di linea e nessun raccattapalle. Però tutti abbiamo una vita alle spalle e storie da raccontare, che possono aiutare anche i protagonisti. Serviva solo un luogo dove metterle e io glielo sto offrendo».
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