Federico Ferrero - 05 December 2017

Pircher, il talento che non si allenava

Mancino, talento enorme, voglia di sacrificarsi nulla. Ljubicic se lo ricorda ancora: «Mano deliziosa, ma era uno dei più pigri che abbia mai conosciuto». Ha vinto match con le scarpe slacciate, la racchetta rotta e fatto ammattire ogni coach abbia provato a raddrizzarlo. Ora ha trovato pace nell’hotel di famiglia.

Dopo averlo visto palleggiare nella sua accademia di Monaco di Baviera, l’appuntito Niki Pilic - una specie di colonnello slavo ex finalista al Roland Garros, coach di fenomeni come Djokovic e Michael Stich - lo prese da parte e gli parlò chiaro: «Io ho già preso 32 giocatori e li ho portati nei primi 100, es ist klar? Bene, tu sarai il numero 33». “Tu” era Stefan Pircher di Rablà, frazione di un minuscolo comune in val Venosta, Parcines, dove trovi cascate, neve, canederli allo speck da buttare giù con un Caldaro, c’è pure un campanile in mezzo a un lago. Ma nulla che richiami il tennis. Stefan, difatti, aveva iniziato a giocare nel circolo di Naturno col maestro Wolfi Gapp senza un perché, se non per imitare la sorella, Evelin: rovescio a due mani, braccio veloce e delicato, estremamente coordinato. Un vero talento, quel piccolo Pircher nato nel 1978. E che sia lo stesso Pircher battezzato da Pilic fatichi ad accettarlo, se gli chiedi di fare due scambi oggi: si presenta vestito da scampagnata, coi pantaloni lunghi e senza racchetta. Se ne fa prestare una fucsia da una ragazzina, incordata alla tensione del retino per farfalle; posa il pacchetto di sigarette e accompagna la prima palla ridacchiando: «Skusa, sono mesi ke non gioko». Ma al terzo rovescio stretto, ti ha già spedito a rispondere sul campo accanto e, guardando di là dalla rete, ti sembra si sia materializzato una specie di Nalbandian con due modifiche, una crucco-tirolese e l’altra tecnica, perché è mancino. Sono passati più di vent’anni eppure Ivan Ljubicic, ex numero 3 del mondo e conosciutissimo coach della rinascita di Federer, non si è scordato di lui: «Pircher? Certo, ci siamo allenati insieme. Aveva una mano deliziosa, solo che era uno dei ragazzi più pigri che io abbia mai conosciuto».

CACCIATO DA PILIC
Forse per le preghiere di mamma Midi, capitò che a Bertino venisse proposto un lavoro proprio vicino a Merano: lui accettò e Stefan tornò a casa ad allenarsi, mentre la famiglia del suo coach viveva lo stesso straniamento che lui aveva sperimentato sulla sua pelle, a Torino. «Sua moglie e i figli vivevano nella villetta di fianco al nostro hotel. Credo che, in due anni, sia uscita tre volte di casa. Del resto qui nessuno parla italiano e lui stava dal mattino alla sera in campo». Quando la nostalgia piegò le resistenze dei Bertino, Pircher provò a fare il salto tra i professionisti a Modena, con Massimo Bontempi. Le cose non andarono benissimo. Anche se i risultati cominciavano ad arrivare insieme ai primi punti Atp - in un satellite in Tunisia batté l’ex top 70 Yahiya Doumbia – «era un incubo, perché bastava un soffio di vento per mandare tutto al diavolo». Non solo tutto, anche tutti: Bontempi, che forse non aveva la chiave giusta per aprire la serratura della sua mente imbizzarrita tra nervosismi e apatia, riceveva in dote una scarica di parolacce dal suo giocatore ogni volta che una partita non andava per il verso giusto. Ora, seduto al bancone del suo ristorante da mille e una notte, pensando a quella grande occasione cede a un minimo di rimpianto: «Potevo fare di meglio. Una volta, in California, invece di allenarmi affittai un golf kart e gli passai vicino, facendogli ciao ciao con la mano. Un’altra volta mi feci prestare casa da una signora che viaggiava molto per lavoro e passai la settimana a divertirmi con la segretaria del club che ospitava il torneo. Bontempi, poverino, lo avevo fatto letteralmente ammattire: mandò un fax ai miei genitori per dire che, in tutta la sua carriera, non era mai stato preso in giro così da un allievo, e che non ce la faceva più». Se Pircher, in campo, metteva la palla dove voleva, purtroppo preferiva calpestare altri rettangoli: «In Grecia, una volta, feci il “dritto”, nel senso che passai direttamente dalla discoteca al circolo. Il mio match iniziava alle dieci del mattino, ero mezzo sconvolto. Avevo diciott’anni, se nessuno mi controllava ero pericolosissimo. Poi me ne rendevo conto, che i miei lavoravano e io andavo in giro per il mondo a fare il cretino spendendo i loro soldi, però era difficile trattenermi: quanti altri ragazzi della mia età avevano le stesse opportunità di fare la bella vita in giro per il mondo?». Ancora adesso, se gli chiedi cosa gli manchi di più tra il non aver potuto giocare a Wimbledon o in Davis, pensa ad altro: «Mentre noi parliamo, un professionista sta volando in America. Newport, Atlanta, magari Los Angeles prima di andare a New York…» Possibile che neanche il colonnello Pilic, quello che riuscì a far ragionare cavallo pazzo Ivanisevic a Wimbledon 2001, sia riuscito a metterlo in riga? «Sì, possibile. In accademia c’era un lituano che giocava bene ma aveva il vizio di rubare: batterie, vestiti, tutto quello che trovava. Una sera, dopo che già era stato beccato nei centri commerciali a fregarsi della roba, gli addetti scoprirono che c’era stato un furto nel ristorante dell’accademia. Io manco a dirlo, ero in giro per locali con amici; ignari di tutto, tornammo in stanza ubriachi all’alba, facendo un po’ di casino nei corridoi. Dopo due ore, arrivò la polizia e ci accusò di essere i responsabili del furto, perché gli altri ragazzi ci avevano sentito camminare di notte fuori dalle nostre stanze e bussare alle porte delle loro camere. Finimmo tutti in commissariato, a farci fare le foto segnaletiche e lasciare le impronte digitali. E finì tutto anche con Pilic perché, nonostante alla fine avesse creduto alla nostra innocenza e avesse cacciato il lituano, mi spiegò che comunque anche io avevo violato le regole del club andando a fare bisboccia in città e, quindi, ero fuori».

© RIPRODUZIONE RISERVATA