Ex davisman, anima del marchio di abbigliamento Australian, in questa intervista Giordano Maioli ricorda il suo compagno di doppio Pietrangeli

Quando ha conosciuto Nicola Pietrangeli?

«Avevo 17 anni. Dovevo giocare il Roland Garros juniores, ho viaggiato da solo in treno da Piacenza a Parigi. Non parlavo una parola di francese. Arrivo in albergo che era sera e vedo Nicola e Sirola che scendono la scale in smoking per andare ad una festa. Nicola mi chiede: ‘Sei il ragazzino della federazione?’ e mi salva parlando lui con il concierge per la stanza. Gli davo del lei. ‘Dammi del tu: vuoi allenarti domattina? Allora ci vediamo qui alle 9,30’. Capirà: Nicola Pietrangeli, che quell’anno avrebbe vinto il torneo. Il giorno dopo ero già lì alle 8,30. Ho perso ai quarti, ma sono rimasto a fargli da sparring fino alla finale, quando ha battuto Ayala».

Mica male, come prima volta. 

«Sa, dicevano: Pietrangeli, ma anche Panatta, sono romani, indolenti… Nicola in finale dopo il terzo set contro Ayala aveva i piedi insanguinati per le vesciche rotte. Il massaggiatore gli dice: ‘c’è poco da fare, al massimo metta due calzini’. Torna in campo e perde il quarto. Finito? Macchè: vince al quinto. Quando si dice avere gli attributi… Tre anni dopo ero in squadra con lui. Esordio contro la Rodesia, abbiamo vinto 7-5 al quinto contro Beyle e Solom». 

Neanche lei se la cavava male, in doppio.

«Ho vinto una volta gli assoluti con Tacchini, a Catania, due volte con Pietrangeli, a Bologna e Firenze, battendo Panatta e Marzano e Panatta e Di Domenico. Poi nel ’76, anche se in singolare non giocavo più dal ’67. Nicola, che nel ’71 e ’72 aveva giocato con me, aveva preferito fare coppia con Panatta. Ai campionati indoor di Modena, che allora erano importanti, lo battei con Marzano. Dopo lo presi anche un po’ in giro…». 

Un rovescio da leggenda, Nick. 

«Poteva tirarlo in lungolinea, incrociato o giocare la smorzata con lo stesso movimento, difficilissimo da leggere. Un controllo assoluto. Poi faceva certe cose… E pensava di conseguenza». 

Esempio?

«Incontro amichevole con gli Stati Uniti, a Firenze, io e Nicola contro McKinley e Froeling. Prima giornata, lui batte Froeling – che aveva vinto a Forest Hills – e io perdo da McKinley, che l’anno prima aveva trionfato a Wimbledon senza perdere un set. Arriviamo al doppio, Nicola gioca a sinistra. Uno pari, due pari, tre pari. Serve McKinley, e Nicola mi dice ‘cambia sulla risposta’. McKinley serve la prima, io non cambio.  ‘Ma che fai’, mi rampogna. ‘Ma come, sulla prima?’.’Tu cambia e basta’. Per dire la sicurezza e la padronanza».

Una carriera lunghissima.

«Un anno – io avevo già smesso ma giocavo meglio di prima perché non sentivo la pressione di dover vincere – mi chiama e mi dice: vieni a Parigi che ci fanno giocare il Roland Garros. Al primo turno battiamo due francesi, tre set a zero. Al secondo ci toccano Smith e Gorman. Perdiamo 7-5 al quinto. Loro poi avrebbero vinto il torneo, ma Nicola gliela metteva nelle orecchie: lob al volo, passanti, contro-smorzate. Lo guardavo e dicevo: ma come fa? Se si alzava la mattina e diceva: ‘oggi la sento’, erano guai. Eppure tecnicamente non sa dirti niente, non sapeva neppure se impugnava eastern o western: ‘Damme la racchetta, che te faccio vede”. Manualità assoluta, puro istinto. I geni sono fatti così».