Una rivalità preziosa, quella tra Sinner e Alcaraz, spettacolare per il pubblico ma destinata ad autoalimentarsi dopo ogni sfida

foto di Brigitte Grassotti
Un’altra impresa, e che impresa. Jannik Sinner era il campione uscente, giocava in casa, sulla sua superficie preferita, trenta vittorie consecutive, contro il suo unico rivale, da cui quest’anno ha perso in finale sia a Parigi che a New York. Una pressione che pesava tonnellate. Avesse perso anche questa finale contro Alcaraz, quelle tonnellate gli si sarebbero rovesciate addosso. Sarebbe stato un colpo, questa volta sì, dal quale sarebbe stato difficile riprendersi. E per raccontare anche questa impresa di Jannik Sinner, tocca di nuovo cercare parole che corrispondano alla grandezza stessa
dell’impresa. Mi chiedo come facesse il commentatore australiano davanti alle vittorie a ripetizione di Rod Laver, lo svedese per Björn Borg, lo svizzero per Roger Federer e così via.
Il fatto è che noi italiani eravamo convinti fossero cose che non ci avrebbero mai riguardato, rassegnati a guardare vincere gli altri, a innamorarci di altri e a ritornare periodicamente, a distanza di decenni, a rimembrare i Nicola Pietrangeli e gli Adriano Panatta. È accelerato tutto in maniera esponenziale, nel gioco e non solo. Domenica era uno spettacolo vedere quei due prendersi a pallate aggrappati alla linea di fondo, guai a indietreggiare di un solo centimetro, pena la perdita del punto. E poi c’è quella frase, dopo la vittoria, quando Jannik Sinner dice a Carlos Alcaraz di avere bisogno di lui, per migliorare. Vero, senza le quattro sconfitte subite in questa stagione da Alcaraz, Sinner non sarebbe il giocatore che abbiamo visto in questa finale. L’uno spinge l’altro a crescere. E seguirli passo passo, com’è possibile oggi fra canali tematici e social, è un vero romanzo d’appendice. Che durerà a lungo, che vorremmo non finisse mai e che sarà comunque difficile e meraviglioso, per noi, trovare
le parole per raccontarlo.

