GIPO ARBINO, IL COACH CON LA PIPA
«Era appena uscito il film e, quando giocavo, esultavo gridando: Rambooo!. Un giorno, un articolista di un periodico locale scrisse: Gipo Rambo vince il Fioccardo, un torneo di terza categoria di Torino. Io mi chiamo Gian Piero, un nome per ciascun nonno; da allora, però, sono rimasto Gipo. A parte per mia madre, che non lo sopportava: quando telefonavano a casa chiedendo di Gipo, rispondeva che non sapeva chi fosse e metteva giù». Gipo Arbino, 63 anni portati con fierezza su un corpo atletico e massiccio, la pelle brasata da decenni di campo e di tribuna, è stato un tennista tardivo e fai-da-te, come a quei tempi poteva ancora capitare. Al padre, impiegato alla Fiat, e alla mamma, casalinga, del tennis non importava nulla e, fino a 18 anni, non aveva mai toccato una racchetta. «Però ricordo che ne ero attratto: in estate, andavamo in vacanza a Imperia e passavo interi pomeriggi a guardare quei signori che giocavano sul lungomare. Ero piccolo, non capivo: ma come, siete 15 pari e, tre punti dopo, il punteggio è due pari? Era uno sport strano, fin troppo, ma allo stesso tempo mi intimidiva e mi catturava». Poi, il tipico episodio da nulla che fa cambiare strada alla vita. Un gruppo di amici che si riunisce a Rivalba, fuori Torino, per il fine settimana; una casa con un salone, un cesto enorme pieno di racchette di legno e un’amica della comitiva, Barbara, l’unica a prendere lezioni di tennis. «Mi feci convincere a provare: andammo lungo il viale e giocammo per strada, io e lei. La prendevo, la palla. Nel giro di un mese, il prete di Rivalba decise di rifare il campo da calcio e, accanto, ne fece costruire uno da tennis, in terra battuta. Erano i primi anni Settanta, il tennis iniziava a tirare. Ci concesse di giocare gratis per una settimana, purché usassimo scarpe adatte: per il resto, eravamo in jeans e maglietta. Al supermercato comprai la mia prima racchetta: la ricordo ancora, si chiamava Aeroplane (azienda storica di Shanghai famosa soprattutto nel badminton, i cui prodotti si vendevano nella grande distribuzione, ndA). Mi sono messo a giocare così, per scherzo. Una domenica mattina, ero andato a veder giocare quelli bravi al campo di Rivalba. Uno dei due soci non era arrivato e, quasi con pietà, l’altro mi disse che mi avrebbe fatto palleggiare un po’, tanto per non perdere il campo già prenotato. Lo presi a pallate. Pochi giorni dopo, ero al circolo di San Mauro per tesserarmi».
Rambo Arbino giocava d’attacco. Con i suoi colpi imparati per strada serviva forte e si lanciava a rete, un po’ perché si era innamorato pure lui dei gesti bianchi di Panatta, un po’ perché, da fondocampo, quella presa continental funzionava poco. Vinse tre volte il Racchetta d’argento di terza categoria, arrivò a essere B4, ma la corrente della vita continuava a trascinarlo in un’altra direzione: il diploma da geometra, il militare nei parà di Livorno, il fidanzamento e il matrimonio, la paternità. Il tennis era cosa solo sua e, al resto del suo mondo, piaceva sempre meno. «Lavoravo alla Vagnone&Boeri Abrasivi. Andavo a risolvere problemi di corrosioni industriali: cisterne, cancellate, pavimenti. Ero bravo, avevamo un buon prodotto, piacevo. L’azienda era solida, ero assunto a tempo indeterminato, con prospettive di carriera. Finché un giorno, nel 1977, non uscì un annuncio su una rivista che ormai non c’è più, si chiamava Piemonte Tennis. Lessi: "Corso da istruttore alle Pleiadi di Moncalieri"». In quegli anni di crescita economica a doppia cifra, i corsi non servivano per spillare soldi agli allievi: quelli che meritavano, li prendevano a lavorare perché c’era fame di maestri. La gente comune impazziva per Adriano, Roma, Parigi, la Davis e voleva improvvisamente giocare a tennis. La domanda superava l’offerta: «Pagai 8.000 lire per la mia prima lezione, col maestro Greguoldo. Su 50 persone ne selezionarono 13, io ero tra quelli. Mi disse che mi aveva scelto, anche se non ero stato il più bravo, perché avevo dato tutto. Mi corresse alcuni difetti, senza forzarmi a essere ciò che non ero: ecco perché, ancora oggi, non specializzo nessuno. Dai sei anni in poi, insegno tutti i colpi. Poi ognuno ha il suo istinto e si specializzerà da sé».
A casa, la notizia che Gipo si fosse licenziato, rinunciando al posto fisso con moglie e figlia a carico, fu accolta con lo stesso favore di una pestilenza: «Il gestore del circolo per cui giocavo la Coppa Italia, il Lido Royal di corso Moncalieri, mi disse che si era liberato un posto da maestro. Non ci pensai due volte: andai in azienda e diedi le dimissioni. I miei mi diedero del matto, mia moglie mi pregò di pensarci bene perché avevo famiglia e, soprattutto, stavo per diventare ispettore per tutto il territorio italiano. Avrei guadagnato molto di più, tanti soldi sicuri a fine mese. Solo che i miei superiori avevano rimandato più volte la decisione e mi ero scocciato di aspettare. Per sette anni feci il maestro lì: avevamo sette campi in fila, due piscine, un ristorante, era davvero un posto molto carino. Si guadagnava anche». Solo che, a fianco del circolo, c’era una discoteca frequentata da calciatori e dalla Torino bene. Si chiamava Lido Whisky. Una notte di autunno del 1986, venne rasa al suolo da un incendio doloso, appiccato per questioni di racket malavitoso. «Rimasi senza campi per lavorare. Per fortuna, trovai piuttosto alla svelta un impiego qui, dove sono tornato ora dopo tanti anni».
Qui è il Green Park di Rivoli, un circolo defilato in una borgata minuscola, in aperta campagna, vicino agli allevamenti di fassona piemontese ma a due passi dalla tangenziale e da corso Francia, che porta dritto nel cuore di Torino. Il vicepresidente del circolo, Massimo Zallo, gli ha dato carta bianca e, quasi quarant’anni dopo averlo lasciato nell’industria, Arbino ha ritrovato il mitico posto fisso: «Mi hanno assunto, quindi ho la tranquillità dello stipendio e posso lavorare in libertà con i miei giocatori, gestire uno staff. Ci sono otto maestri e tre preparatori. Hanno investito su di me, il direttivo del circolo ha coperto tre campi in più: ora ne abbiamo anche uno veloce, indispensabile per i professionisti. Credo che il Green Park sia il centro in cui ci sono più tennisti di seconda categoria». Ed è stata una scelta coraggiosa: ospitare i professionisti, e chi vuole diventarlo perché costa di più e rende di meno rispetto a raccogliere soldi con le lezioni a casalinghe e impiegati. La squadra di Gipo ha un nome da band degli anni Sessanta, sembra ispirata all’immaginaria Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band: si chiama Gipo Arbino Vocational Tennis Training, e il concetto di vocazione torna ciclicamente nei suoi discorsi. Anche perché, sorpresa, il tennis non era il vero talento di Gipo Arbino. Lo racconta levandosi gli occhiali da sole e posando il sigaro; evidentemente, gli è rimasta una ferita da qualche parte. «Avrò avuto dodici o tredici anni, avevano ricoverato mia mamma in ospedale, niente di grave ma eravamo un po’ preoccupati; per stemperare la tensione, durante il viaggio mio padre cantava, io iniziai ad andargli dietro. Lui rallentò, si girò e mi disse: “Stai scherzando? Ma da dove ti esce questa voce?”. Tornati a casa, mi fece vedere dal professor Uberti, un personaggio molto particolare che mi seguì per un po’. A 21 anni, quasi senza allenamenti, ero diventato un bel tenore. Mi prepararono per una selezione alla Scala, ci andai da solo. Mi ero studiato Che gelida manina e Lucean le stelle della Bohème. Cantai e mi presero: ero stato ammesso a frequentare il Conservatorio. Però mi sarei dovuto trasferire a Milano e in più, i tenori erano tutti grossi e robusti, mentre io ero alto e secco. Insomma, non me la sentii. Ho ancora il ricordo del giro del teatro che un baritono mi fece fare, dopo avermi ascoltato… Adesso canto qui al circolo, durante le feste. Il mio pezzo forte è ’O sole mio». È l’unico momento della chiacchierata in cui Gipo esita. «È andata così». È il suo rimpianto. «Però mi è servito. Per insegnare ai miei ragazzi, soprattutto a Lorenzo, di crederci, se sentono di avere qualcosa dentro».
Lorenzo è, ça va sans dire, il suo Sonego. L’ariete con cui ha sfondato il muro di quelli che spingono per entrare nell’unico club che conta nel tennis pro, i primi 100 al mondo. Una selezione barbara, quasi disumana: centinaia di migliaia di piccoli Sonego ci provano in tutto il globo e, praticamente, nessuno ce la fa. «Era il 2006 e un amico comune con il padre di Lorenzo, Roberto Sivieri, ci fece incontrare. Mi disse che aveva un figlio di 11 anni, lo aveva portato a fare due lezioni col maestro Aquilante ed era stato giudicato molto portato. Lo feci provare con Paolo Bonaiti: quando tornò, mi disse che non era possibile, che quel ragazzo non poteva aver giocato soltanto due volte. Era un segno. Mi incuriosii e lo andai a vedere pure io: era piccolo, magro, faticava a reggere la racchetta. Non mi impressionò, onestamente. Si muoveva benissimo e aveva una grinta stupefacente, sapevo che giocava a pallone, era molto considerato nel Torino calcio. Ma era così gracile che iniziava ad avere problemi nei contrasti, e finì con l’abbandonarlo». Per un po’, Lorenzo fu uno dei tanti. Come la carriera di Rambo Arbino era ben piantata entro i confini sabaudi, anche il cammino da coach Gipo Arbino era instradato nel circuito, dignitosissimo ma sottotraccia, di quelli che non si vedono mai in televisione. E Sonego non sembrava proprio il cavallo giusto per cambiare girone: «Ci ero andato vicino più volte, a farcela: avevo scoperto la Gagnor, che arrivò in semifinale alla Lambertenghi; poi, qui al Green Park, feci crescere Giraudo, che è stato 490 del mondo. Ho allenato anche Gramaglia, la Chieppa, la Disderi, che sono state intorno alla 300esima posizione. Un po’ era colpa mia, l’inesperienza; un po’, del fatto che nel passato non arrivavano gli aiuti quando servivano, cioè dai 18 anni in poi». A dispetto del premio che non arrivava mai e degli anni che passavano, Arbino si portava dietro i suoi ragazzi in giro per il Piemonte: «Dopo otto anni qui, mi chiamarono alle Pleiadi di Moncalieri, che avevano finito il ciclo con Riccardo Piatti. Dopo altri cinque anni andai allo Stampa Sporting, restandoci per quattordici, ovvero finché non se ne andò il presidente Gianni Romeo, uomo straordinario e di grandi valori. Passai all’Ace di Volvera, il cui proprietario era anche patron del Monviso di Grugliasco: sinceramente, credevo mi avrebbero mandato lì, anche se a Volvera avevano un bel progetto agonistico. Però avevo fatto un passo indietro, perché allo Stampa ero responsabile tecnico. Dopo un anno, sono tornato al Green Park e sono rimasto qui, con Lorenzo e con gli altri».
Coi soldi contati, Lorenzo e Gipo - oppure il padre, quando occorreva - partirono per i primi Futures nel 2014, quando perse 7-6 al terzo contro Federico Gaio. Eppure nulla si muoveva. Arbino telefonò a una sua conoscenza, Giancarlo Palumbo, di casa a Tirrenia: «Gli dissi che c’era un ragazzo da vedere, che secondo me poteva dare delle soddisfazioni. Lui mi rispose che c’era un responsabile del progetto over: replicai che io neanche sapevo dell’esistenza di un progetto. Mi consigliò di chiamare Umberto Rianna, che conoscevo dai tempi in cui allenava Starace e Potito aveva vinto il 100.000 dollari allo Sporting. Lo portai a Tirrenia per quattro giorni, vinse praticamente contro tutti nonostante i suoi difetti tecnici. Molti la pensavano come me: cavolo, ma se questo vince con servizio, dritto e grinta, rispondendo quasi mai e col rovescio scarsino, magari... Da allora, è iniziato un rapporto fantastico. Ci hanno aiutato tanto, anche economicamente. Qui, al Green Park, sono arrivati i primi risultati di Lorenzo e la Fit ci ha dato una grande mano. Spesso, per accompagnarlo, io non gli chiedevo neanche la diaria; lui pagava solo gli allenamenti, col 50% di sconto, e con i soldi federali, usati solo per lui, siamo riusciti a seguirlo un po’ di più. Fino al 2017, quando hanno creato il "sistema protezione": il giocatore anticipa i soldi per allenamenti, tornei, spese mediche, ristorante eccetera e loro rimborsano, presentando i giustificativi, fino a un tot. Mi sembra una cosa corretta: in passato, i soldi venivano anticipati da loro e, magari, qualcuno li aveva usati per comprarsi una macchina nuova». Quest’anno, la protezione a Sonego sarebbe stata riconosciuta anche per una cifra maggiore ma, dopo il clamoroso Australian Open e una raccolta di montepremi che ha superato i 300.000 dollari in pochi mesi, il finanziamento, non più necessario per le sue trasferte, è stato giustamente dirottato sul compenso di Damiano Fiorucci, un valente preparatore che presta la sua opera itinerando.
Quando racconta della sua prima volta, a sessant’anni suonati, negli hotel di lusso del tennis, Gipo ha l’entusiasmo del ragazzino al parco Disneyland: «Ah, l’Australia... Il primo Slam è stato un sogno, per me. Per fortuna, col senno di poi, Lorenzo aveva perso al primo turno al challenger di Playford. Siamo rimasti dieci giorni a lavorare, l’ho messo sotto: cesto, precisione, servizi. Siamo arrivati a Melbourne super preparati, ha battuto Monteiro che è un bel cagnass, poi Safwat e Tomic. Una favola, non stavo più nella pelle. Ecco: quello che ho vissuto lì, e che sto vivendo ora, lo ritengo un premio ai 40 e passa anni che ho dedicato a questo sport, danneggiando la mia vita privata. Non voglio fare la vittima, ma è così. Ho speso tempo, soldi e ho fatto tante rinunce. Dopo la separazione, ho avuto un altro paio di relazioni importanti, sempre finite causa tennis. Sono un esagerato: rapporti anche straordinari si sono incrinati perché, se devo seguire un ragazzo, io rinuncio al week-end, alla vacanza: quest’anno, per dire, non ho fatto un fine settimana a casa o un giorno di ferie. Per passione, mica mi pesa; semmai, pesa a chi è stato con me, che ha resistito finché ha potuto. La mia compagna di oggi è ben disposta, ha capito e per fortuna ha tanti impegni. Mia figlia è del 1979, ha un bimbo di sei e una di tre. Fare il nonno è una cosa che mi manca: mi sto rendendo conto che tutto il tempo che ho tolto a mia figlia, ora lo sto togliendo anche ai miei nipotini».
Anche se Lorenzo vive ancora con la mamma, sta cercando casa. Quella tennistica, l’ha trovata: a Ortisei ha dedicato il titolo alla persona che «mi ha insegnato tutto, non solo a giocare»: a momenti Arbino inghiottiva il toscano cadendo addosso al giudice arbitro. «Abbiamo avuto offerte in Liguria, Roma, Milano, grossi team. Non avrei più avuto problemi, volevano prenderci sul serio. Ma lui vuole stare qui e io pure, siamo a casa. So che in giro ci sono furbacchioni che ogni tanto gli propongono di cambiare scuderia, io gli ho lasciato piena libertà, la mia porta è sempre aperta. Finora, lui ha sempre risposto che non ci pensa nemmeno a mollarmi». E chi non vorrebbe averlo con sé, uno come Rambo?
La foto di apertura è di Francesco Peluso