Reilly Opelka, un americano a Roma (a sorpresa)

Il gigante statunitense è il protagonista inatteso degli Internazionali d’Italia: sulla terra aveva vinto solo due partite ATP in carriera, mentre al Foro Italico ne ha già portate a casa tre guadagnandosi i quarti. Servire coi trampoli lo aiuta, ma nel suo tennis c’è altro. Roma continua a portare bene agli Stati Uniti: nel peggior periodo della loro storia ne avevano bisogno

Foto Ray Giubilo

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Teoricamente, sulla terra battuta il servizio bomba fa meno male che altrove e non basta per vincere le partite, ma viaggiare con la media di 10 ace a set non dev’essere comunque niente male. È (anche) così che lo statunitense Reilly Opelka ha prenotato la sua sedia oversize nei quarti di finale degli Internazionali d’Italia, non esattamente il torneo prediletto per chi ha un fisico da pivot di una squadra di NBA, porta il 51 di scarpe e se potesse decidere di testa propria farebbe volentieri a meno di sporcarle di terra rossa. Ma il calendario del tennis internazionale prevede anche degli obblighi, e allora il gigante del Michigan ha portato i suoi 211 centimetri (come Karlovic, più di Isner) anche sui campi del Foro Italico, sorprendendo pure se stesso con una settimana da favola. Inattesa è un complimento: sulla terra rossa il 23enne di St. Joseph aveva vinto appena due partite in carriera a livello ATP, e per ritrovare il suo ultimo successo stagionale bisognava tornare all’Australian Open, dove si era aperta una striscia di sei sconfitte consecutive.

Sembrava destinato a portarla almeno fino al Roland Garros, invece l’americano dal look stravagante l’ha fermata all’esordio contro Gasquet e poi ci ha preso gusto, scoprendo che in fondo ‘sti maledetti campi rossi non sono così un dramma. Martedì Opelka ha crivellato di ace (23, in 10 turni di servizio) il povero Lorenzo Musetti, mentre agli ottavi sul GrandStand ha spedito a casa anche Aslan Karatsev, che dopo aver fatto fuori Daniil Medvedev pareva il candidato giusto per sfruttare l’autostrada creatasi nel tabellone. Invece al posto suo ci sarà Opelka, grazie a tre vittorie in due set e senza nemmeno faticare troppo. Palle break concesse sin qui? Giusto un paio a Karatsev, entrambe salvate. Servire dal secondo piano aiuta, e i 212 km/h di velocità media sulla prima palla lo confermano, ma il suo tennis non è solo boom boom boom aspettando un altro tie-break. In tre partite ne ha avuto bisogno solo una volta, perché quei break che gli avversari non sono stati in grado di fargli, lui ha saputo farli a loro.

Trovare uno statunitense ai quarti a Roma fa strano, eppure gli Internazionali d’Italia hanno sempre portato bene agli americani, sin dalla primissima edizione del 1930, quando al Tennis Club Milano vinse il mitico Bill Tilden. Addirittura, sono proprio gli Stati Uniti il paese a vantare il maggior numero di vincitori diversi nell’albo d’oro: il record di titoli è della Spagna con 15 (ma con 7 giocatori), mentre gli undici successi degli States portano nove firme diverse. Dopo Tilden, prima dell’avvento dell’Era Open vinsero anche Wilmer Hines, Budge Patty e Barry MacKay. Fra 1977 e 1979 la doppietta di Vitas Gerulaitis, nel 1983 il successo di Jimmy Arias, poi i due consecutivi di Courier (1992-1993) e il più importante titolo sulla terra battuta della carriera di PistolPete Sampas, che nella finale del ’94 lasciò cinque game in tre set a Boris Becker. Nel 2002, invece, l’ultimo titolo a stelle e strisce con Andre Agassi, campione a spese di Tommy Haas. L’ultimo risultato degno di nota è invece la semifinale di Isner nel 2017, lo stesso traguardo che rincorrerà Opelka venerdì, in una sfida-occasione contro il qualificato argentino Federico Delbonis.

Intanto, Reilly il gigante può godersi il suo secondo quarto di finale in un Masters 1000 dopo quello di Cincinnati 2020 (giocato a Flushing Meadows), e magari dimenticare per qualche ora quell’ostilità verso l’ATP che l’ha reso uno dei più grandi critici della gestione Gaudenzi. Già, perché a comandare il tennis sparatoria c’è una testolina che ragiona, la passione per la moda nel mito del “diavolo” Anna Wintour, quella per l’arte che la scorsa settimana a Madrid l’ha portato a farsi un giro al Museo del Prado (anche a Roma qualcosina da vedere lo dovrebbe trovare…), e anche un occhio al sociale. Prima del Miami Open, per esempio, ha deciso che avrebbe donato 100 dollari per ogni ace a un’associazione benefica che offre sostegno alle persone colpite da una lesione del midollo spinale, e non è la prima volta che cerca di spostare l’attenzione su temi più importanti rispetto a racchette e palline.

La cavalcata romana di Opelka, che in carriera ha vinto due titoli entrambi sul cemento, è ossigeno puro per il tennis statunitense, che proprio questa settimana vive il suo periodo più grigio di sempre. La statistica dice che per la prima volta da quando esiste la classifica computerizzata non hanno alcun giocatore fra i primi trenta del ranking ATP, ma il dato sarebbe ancora più severo se esistessero degli archivi precedenti al famoso 1973. Colpa – si fa per dire – di John Isner, che per evitare il tracollo degli States doveva arrivare in semifinale a Madrid, e invece la scorsa settimana ha perso ai quarti contro Dominic Thiem. Ma è stato proprio Isner a tirare avanti la baracca negli ultimi anni (e l’ha fatto bene, con anche un titolo Masters 1000 e tanta settimane da top-10), quindi il dito va puntato altrove, in direzione di quei ricambi che nelle ultime stagioni hanno faticato a farsi strada. Il migliore oggi è Taylor Fritz, al numero 31, mentre da lunedì Opelka sarà almeno numero 40.

Troppo poco per un paese dai numeri e dalla storia degli Stati Uniti, ma da qualche parte bisogna pur ripartire, e in attesa della nuova generazione Opelka può essere uno dei volti del presente, specialmente ora che ha capito di poter giocare discretamente anche sul rosso. E pazienza se del prototipo del buon giocatore da terra battuta non ha nulla o quasi, l’importante è vincere le partite. A Roma gli sta venendo particolarmente bene.

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