Comunque finisca, questa surreale vicenda sarà l' evento sportivo dell' anno, o del decennio. Forse ne faranno un film un giorno: House of Nole. A livello mediatico, viene in mente solo il caso-Seles, l'accoltellamento di Monica Seles da parte di un mitomane, ad Amburgo. Lì però i ruoli erano certi, c'era una vittima e un colpevole. Qui no, qui si fa fatica a mettere a fuoco le posizioni perché in questo intrigo internazionale il ruolo di colpevoli è di tutti, ma quegli stessi colpevoli sono anche vittime. Delle regole poco chiare, dei conflitti di attribuzioni fra sistemi sanitari, di protocolli sempre interpretabili, giù giù fino all'OMS che da due anni non fa chiarezza su niente. Chi può viaggiare, e dove? Non si sa. Guardiamo cosa succede nel calcio: non ci sono due campionati in Europa che si giocano con gli stessi protocolli, una parola che è ormai una condanna. Chi fa le regole? Deve farle l'Inter, o il Real Madrid? Novak Djokovic? Non è normale, siamo seri. Lo sportivo è un uomo, vuole giocare. C'è un bel libro di Ferdinando Camon, si intitola La malattia chiamata uomo, perché «l’uomo è una malattia» è un concetto nicciano che dice una cosa semplice : siamo malati perchè siamo umani, siamo umani perché siamo malati.
Dopo la sentenza che gli ha di fatto dato ragione, secondo me Djokovic ha già vinto la sua personale battaglia. Forse non vincerà gli Open d' Australia, si farà ancora più nemici di quelli che aveva già, ma essere passato da una stanza dell'albergo per migranti al campo d'allenamento degli Open in virtu' di una sentenza vale uno Slam del marketing. Non è facile vincere in Tribunale in Australia, con il mondo contro. Vuol dire che le sue motivazioni erano valide, e i giudici - fidiamoci - sono tutta gente preparatissima, guardano la legge e non si fanno influenzare dai giornali.