Genio oppure buffone? Ormai non c’è nemmeno più bisogno che Nick Kyrgios ne combini una delle sue, perché il dibattito si alimenta ogni volta che scende in campo. C’è chi lo ama e chi non lo sopporta, ma parlandone fa il suo gioco. È facilissimo schierarsi, molto meno rimanere indifferenti di fronte a un personaggio che, piaccia o meno, è uno dei più significativi del tennis contemporaneo. Perché Nick è diverso, menefreghista, sfacciato, intrigante. In mezzo a un esercito di chierichetti con l’aureola (finta), lui è l’uomo che prova a rompere le regole del tutti belli e tutti amici, e della sacralità dei Fab Four se ne sbatte allegramente. Pazienza se significa inimicarsi un buon 95% dei tifosi di quello o di quell’altro, Nick non si fa il minimo problema a dare del pagliaccio a Djokovic o a scimmiottare i tic di Nadal. Non sarà elegantissimo, ma la retorica – perché di retorica si tratta – dei tennisti perfetti, puri e intoccabili ha anche un po’ stancato. Quindi ben venga chi la combatte, anche a costo di risultare antipatico e continuare a fare zig zag su quella linea sottile che separa il legittimo dall’esagerato.
Figure come Kyrgios al tennis fanno bene, anche quando fa il bad boy dicendo di preferire il basket e di giocare solo per soldi (è un lavoro anche per loro…), o quando racconta che presto mollerà la racchetta a favore del joystick, per inseguire la carriera da gamer alla Play Station. Quando il circuito riparte e tutti raccontano di aver sofferto la mancanza del tennis, dei tornei, dei viaggi e di tante altre cose, ci sta anche chi dice che il tennis non gli è mancato e i colleghi nemmeno. Se è ciò che pensa, quello deve dire. A differenza degli altri, Nick non filtra ciò che gli passa per la testa prima di aprire bocca, ignorando le conseguenze delle sue parole. Così si è preso critiche – prontamente ricambiate – dai tre quarti dei giocatori del passato, ha avuto problemi con Tennis Australia, ha tacciato di immobilismo l’ATP di Gaudenzi e di inutilità l’intero mondo dei coach (a suo dire “uno spreco di soldi”), e ha discusso via social con una lista di colleghi tanto lunga che per elencarli non basterebbero tre righe. Ma spesso non ha fatto altro che dire come la pensa, senza peli sulla lingua. Un mezzo reato in un mondo devoto agli Dei del politically correct.