La malinconia dei viali deserti e degli spalti vuoti fa da cornice a un’insolita e maledetta edizione degli Internazionali. I pensieri del nostro direttore a passeggio tra i viali del Foro

Sul vialone del Foro la Grande Bellezza va a braccetto con la Grande Tristezza. Monte Mario, i pini, la luce dorata di fine estate che bagna i marmi quasi deserti. Visti così gli Internazionali sembrano una giostra in disarmo, pronta a smobilitare quando arriverà il primo temporale, e un brivido farà alzare il collletto della t-shirt.

Sui gradoni, mascherine sparse: quattro giornalisti, un fonico in libera uscita, due coach che si godono la luce, e fingono di guardare una partita di primo turno; altri che chissà chi sono, chissà che fanno, dentro questa fiera distratta che non assomiglia troppo ad un torneo, piuttosto al lunedì di un villaggio dimenticato ai bordi della città. Incroci una troupe televisiva che taglia in diagonale la valle assolata, ed è come incontrare una carovana nelle steppe di una qualche Asia: sorrisi, gomiti che si toccano, una sosta di pochi istanti: da dove venite, dove state andando? Viandanti in cerca di una rotta per la Bisanzio spopolata del centrale.

Il pubblico non c’è, non può esserci. Tenti di stampare a occhi chiusi, sopra la quinta sacra del Pietrangeli, l’immagine delle folle passate, il loro rumore; di preservare un ricordo scattando un selfie intimidito, e ti accorgi che, in realtà, gli spettatori ci sono: i giganti bianchi che circondano le tribune, assorti o chinati verso il campo, con la loro cura antica, immobile, la loro partecipazione smisurata e silenziosa. Guardano da sempre, osservano dall’alto. Sono i custodi del luogo. Lo proteggono da tutto questo vuoto.

La sala stampa è tornata davanti alle piscine: enorme, luminosa di vetrate, una trentina di banchi appena, come in una scuola di periferia. Di fronte i ragazzini che si rincorrono, entrano ed escono dall’acqua, scuri di sole, si lasciano cadere dal trampolino a coppie, come angeli in libera uscita, si scrollano felici i capelli contro il verde morbido dei prati e dei pini. E’ il settembre di quando non c’era ancora la scuola, figuriamoci il covid, e le giornate erano una festa interminabile, con un filo di malinconia dentro. Gli amici ritrovati, il batticuore, le partite, l’acqua gelata che esce dalle fontanelle, le corse prima che cali la sera e venga tempo di cenare. Una pallina gialla che si alza contro il cielo azzurrissimo, e scompare oltre lo sguardo, chiudendo un cerchio. Ti viene in mente Nanni Moretti, l’elegia semiseria, sofferta e comica, della giovinezza perduta, delle merendine, della schiena appoggiata ai prati prima di rientrare a casa, di tutte le cose che non torneranno più. Chissà se tornerà il tennis che conoscevamo, il silenzio che si sentiva solo per contrasto con le grida, i passi, gli applausi di una folla che oggi sembra un esercito fantasma, smarrito dentro una battaglia che non pensavamo mai di dover combattere.