«Servirà ancora un po’ di tempo. È frustrante ma lo sapevo che sarebbe stata lunga. Voglio continuare a giocare ai massimi livelli, ora però mi concentro sulla riabilitazione. Non voglio correre e forzare, un mese in più o in meno a questo punto non fa differenza: tornare in campo a 40, 41 o 42 anni non cambia la sostanza. Ciò che conta è tornare, ho nel cuore questo forte desiderio».
Immersi nella sbornia tennistica torinese – tra Finals Atp e Coppa Davis –, con ottimi risultati degli alfieri italiani, non sfuggono ai cuori vigilanti queste recenti parole di King Roger, il grande assente, il grande atteso. La si giri come si vuole, il Re ci manca, e il tennis è altra cosa senza i suoi colpi, il suo stile, la sua grazia, anche se ormai siamo abituati all’idea. Pullulano in libreria titoli su questo unicum assoluto – uno addirittura si spinge ad affermare, in tono mistico, Roger Federer è esistito davvero! –, e nei giorni scorsi si è scomodato persino un fine costituzionalista quale Gustavo Zagrebelsky: «Come si fa a non apprezzare un artista del genere? È un ballerino».
E se non tornasse?
Cose già dette e ridette, in varia forma, almeno dall’epoca dei Federer moments e di «Roger Federer come esperienza religiosa» di Foster Wallace. Ma ripetere una verità non ne diminuisce il valore, anzi… Come in amore, come nella vita, quanti gesti e parole ripetiamo e ripetiamo ancora. Lo so, nelle frasi di apertura c’è una non notizia, giornalisticamente parlando, perché «anche il futuro è un soffio», direbbe il sapiente Qohelet. Che ne sappiamo? E se Roger non tornasse più in campo? Possibilissimo, anzi più probabile del contrario. E poi, come potrebbe reggere di fronte al ritmo di Zverev, Medvedev, Sinner, Alcaraz, senza dimenticare la sua nemesi serba?