Roger, Serena e il diritto (acquisito) di decidere quando mollare

Nell’universo social capita spesso di imbattersi in chi suggerisce a Federer, Williams, Murray e altri di dire basta. Non è facile abituarsi a vederli umani e vulnerabili, ma si sono guadagnati il diritto di fare ciò che vogliono. E il fatto che continuino a giocare pur vincendo meno dovrebbe farceli ammirare ancora di più

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C’è chi non riesce più a immaginare un tennis senza certi nomi e sogna di vederli giocare per sempre, ma c’è anche chi, al contrario, non aspetta altro che una loro sconfitta per suggerire di appendere la racchetta al chiodo a quei big ormai sul viale del tramonto. Spesso nella discarica social se ne leggono di tutti i colori, come se nel tennis di oggi conservare ancora qualche obiettivo pur avendo superato una certa età sia diventato una colpa. È vero che ricordando certi campioni come splendenti e imbattibili non è facile abituarsi a vederne la versione umana, vulnerabile o persino perdente. Ma, superando una prima visione un po’ superficiale, non è difficile accorgersi che questa volontà di continuare deve solo far crescere l’ammirazione nei loro confronti, mica il desiderio di invitarli a cambiare aria. Perché a esserci quando fioccano vittorie, titoli e fama sono bravi tutti, ma è quando aumentano le sconfitte e lo stimolo va trovato altrove che emergono i valori veri, come l’amore per il gioco e la voglia di sacrificarsi per la pura passione di farlo, perché non c’è nulla di nuovo da vincere e niente più da dimostrare. Se ritengono che per loro ha ancora senso andare avanti, lo facciano. Non tolgono il posto a nessuno e hanno tutto il diritto di scegliere, senza che nessuno debba dirgli che è ora di appendere la racchetta al chiodo.

All’Australian Open ha tenuto banco il caso Serena Williams: sembrava lanciata verso quel benedetto 24esimo Slam che le permetterebbe di agguantare Margaret Court e soddisfare anche l’ultimo piccolo desiderio della sua carriera, invece ha perso in semifinale contro Naomi Osaka ed è crollata. È scoppiata a piangere, ma l’aver messo a nudo le proprie emozioni non ha fatto altro che alimentare i suggerimenti a lasciar perdere. Un po’ grottesco. Se lo deve fare lei, che quando va male negli Slam arriva in semifinale ed è appena tornata al numero 7 del mondo, che dovrebbero fare le 1.400 giocatrici dietro di lei in classifica? A 40 anni è già tantissimo essere ancora competitiva, in barba ai mesi che passano e alle noie fisiche che si porta appresso. Discorso identico per Federer: la parola ritiro è associata al suo nome da una manciata d’anni, ma lo svizzero è pronto a tornare di nuovo dopo oltre 12 mesi lontano dal Tour. C’è chi storce il naso, dimenticando come è andata a finire nel 2017, e se è vero che ora Roger ha ben quattro anni in più, è vero anche che fino a quando c’è stato è stato sempre molto competitivo. Difficilmente torna per fare figuracce, ma quello è un discorso diverso. Ciò che conta è che se ha ancora voglia di fare il tennista, di allenarsi e di dannarsi per vincere una partita, lo faccia. Già averlo in campo è un regalo, e non è vero che un finale di carriera opaco potrebbe macchiarne il ricordo. Ciò che ha fatto non cambierà mai.

Foto Ray Giubilo

Sta succedendo più o meno lo stesso ad Andy Murray: qualcuno non ha letto come un buon segnale la presenza di uno col suo pedigree al Challenger di Biella, qualcun altro ha sorriso dopo averlo visto perdere in finale contro l’ucraino Illya Marchenko, oppure martedì sera al primo turno all’Atp di Montpellier, dopo che aveva professato di sentirsi in gran forma. Evidentemente non è (ancora?) così, ma se lui vuole continuare a darsi delle chance, può farlo. E guai a pensare che sia una scelta di convenienza. Tutt’altro: negli ultimi anni il tennis gli ha dato pochissime gioie e una lunga serie di delusioni, ultima l’obbligo (causa positività al Covid) di rinunciare all’Australian Open. L’ha devastato, perché si sentiva finalmente pronto e invece si è visto sbattere la porta in faccia, tanto che per evitare di soffrire ha smesso di seguire i colleghi sui social, provando a non interessarsi al torneo. Il tutto dopo che a causa dell’anca malandata ha passato periodi difficilissimi: nel 2019 aveva annunciato il ritiro, poi ha ritrattato, iniziando un lungo percorso di recupero che di fatto non è ancora terminato, e magari mai terminerà. Ma uno che ha saputo diventare numero uno del mondo nell’epoca di Federer, Nadal e Djokovic ha tutto il diritto di decidere per sé. A Montpellier gli hanno chiesto se pensa di poter ancora lottare coi i big. Ha risposto “lo scopriremo”, come a ribadire che la porta del suo futuro è aperta. Ingiusto che qualcuno provi a chiuderla al posto suo.

In Italia viene in mente l’esempio di Sara Errani, uno degli obiettivi prediletti dei leoni da tastiera. C’è stata la controversa vicenda doping, c’è stata la crisi psicologica (e di risultati) che l’ha spinta lontanissima dal tennis che conta, ma ogni volta che scende in campo la romagnola rimane un esempio di grinta e di capacità di fare a pugni coi propri limiti. È stata numero 5 del mondo, è arrivata in finale al Roland Garros e coi 34 anni da compiere ad aprile potrebbe tranquillamente dedicarsi ad altro. Invece è ancora lì a lottare, con le avversarie, coi quei demoni che spesso non le permettono nemmeno di servire da sopra e con un ambiente quasi sempre ostile. Ha appena giocato il suo miglior Slam da quasi sei anni a questa parte: ha vinto due partite, è arrivata a due punti dalla seconda settimana e vede di nuovo le prime 100 a un soffio. Eppure nove volte su dieci viene invitata a cambiare aria perché il meglio della sua carriera è ormai alle spalle. Vero, ma allora cosa dovrebbero fare tutte le connazionali che non avvicineranno nemmeno per sbaglio i suoi risultati attuali? Devono lasciar perdere in partenza? No, è giusto che ci provino. Come è giusto che ci provi ancora lei, o Federer, Serena, Murray e chiunque altro. Tutta gente che si è guadagnata il diritto di decidere in santa pace, e di fregarsene della presunta data di scadenza stabilita da chi guarda.

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