C’è chi non riesce più a immaginare un tennis senza certi nomi e sogna di vederli giocare per sempre, ma c’è anche chi, al contrario, non aspetta altro che una loro sconfitta per suggerire di appendere la racchetta al chiodo a quei big ormai sul viale del tramonto. Spesso nella discarica social se ne leggono di tutti i colori, come se nel tennis di oggi conservare ancora qualche obiettivo pur avendo superato una certa età sia diventato una colpa. È vero che ricordando certi campioni come splendenti e imbattibili non è facile abituarsi a vederne la versione umana, vulnerabile o persino perdente. Ma, superando una prima visione un po’ superficiale, non è difficile accorgersi che questa volontà di continuare deve solo far crescere l’ammirazione nei loro confronti, mica il desiderio di invitarli a cambiare aria. Perché a esserci quando fioccano vittorie, titoli e fama sono bravi tutti, ma è quando aumentano le sconfitte e lo stimolo va trovato altrove che emergono i valori veri, come l’amore per il gioco e la voglia di sacrificarsi per la pura passione di farlo, perché non c’è nulla di nuovo da vincere e niente più da dimostrare. Se ritengono che per loro ha ancora senso andare avanti, lo facciano. Non tolgono il posto a nessuno e hanno tutto il diritto di scegliere, senza che nessuno debba dirgli che è ora di appendere la racchetta al chiodo.
All’Australian Open ha tenuto banco il caso Serena Williams: sembrava lanciata verso quel benedetto 24esimo Slam che le permetterebbe di agguantare Margaret Court e soddisfare anche l’ultimo piccolo desiderio della sua carriera, invece ha perso in semifinale contro Naomi Osaka ed è crollata. È scoppiata a piangere, ma l’aver messo a nudo le proprie emozioni non ha fatto altro che alimentare i suggerimenti a lasciar perdere. Un po’ grottesco. Se lo deve fare lei, che quando va male negli Slam arriva in semifinale ed è appena tornata al numero 7 del mondo, che dovrebbero fare le 1.400 giocatrici dietro di lei in classifica? A 40 anni è già tantissimo essere ancora competitiva, in barba ai mesi che passano e alle noie fisiche che si porta appresso. Discorso identico per Federer: la parola ritiro è associata al suo nome da una manciata d’anni, ma lo svizzero è pronto a tornare di nuovo dopo oltre 12 mesi lontano dal Tour. C’è chi storce il naso, dimenticando come è andata a finire nel 2017, e se è vero che ora Roger ha ben quattro anni in più, è vero anche che fino a quando c’è stato è stato sempre molto competitivo. Difficilmente torna per fare figuracce, ma quello è un discorso diverso. Ciò che conta è che se ha ancora voglia di fare il tennista, di allenarsi e di dannarsi per vincere una partita, lo faccia. Già averlo in campo è un regalo, e non è vero che un finale di carriera opaco potrebbe macchiarne il ricordo. Ciò che ha fatto non cambierà mai.