A Djokovic non si può dire che non porti avanti ciò in cui crede: le sue posizioni no-vax sono ben note nell’ambiente già da prima dell’avvento del Covid-19, e gli è sempre stato fedele, anche se in un paio di occasioni si è trovato costretto a correggere parzialmente il tiro. Ma, perché sia credibile, la scelta (legittima) di difendere le proprie convinzioni deve essere tale fino in fondo, sia quando c’è da fondare la PTPA per chiedere condizioni migliori per i giocatori di fronte a chi governa la racchetta, sia quando può costargli la rinuncia a uno o più Slam. Dopotutto, scendere a patti non è mai stata roba per lui, che ai sorrisi e gli abbracci lanciati al pubblico dopo ogni vittoria ha sempre abbinato un carattere ribelle, andando spesso controcorrente. Non esattamente la scelta ideale se l’obiettivo è quello di farsi amare quanto o più di Federer e Nadal. Impossibile dimenticare la supponenza di inizio carriera, quando fra 2006 e 2009 gettò la spugna per tre volte nei tornei del Grande Slam, sempre in situazioni di svantaggio. La più famosa ai quarti del Roland Garros di sedici anni fa, quando sotto due set a zero contro Nadal si ritirò per un problema alla schiena, e in conferenza stampa disse che sostanzialmente senza quel problema avrebbe vinto, perché stava comandando lui la partita. Suonò folle. Quella sicurezza nei propri mezzi gli è servita per diventare il più grande della storia, ma gli è costata l’avversità di tanti. Colleghi compresi.
Ma le peggiori Djokovic le ha fatte negli ultimi due anni, sbagliando una scelta dopo l’altra. Prima l’allenamento a Marbella con la Spagna ancora in lockdown; poi il disastro dell’Adria Tour, il suo circuito di esibizioni a scopo benefico ma senza regole, senza mascherine e distanziamento, con eventi e feste in discoteca, finito per generare una lunga serie di contagi. Poi c’è stata la famosa diretta Instagram con Chervin Jafarieh, una specie di guru arrivato a dire che vivere in tempi di pandemia è qualcosa di “eccitante”, in barba alle migliaia di morti quotidiane. Poi ancora le foto senza mascherina sul bus degli Australian Open 2021 (Nick Kyrgios gli diede dell’idiota e nessuno se la prese con lui: capita raramente), e quindi la scelta di farsi portavoce dei colleghi, con una lettera a Tennis Australia che chiedeva un notevole alleggerimento delle restrizioni durante le due settimane di quarantena obbligatorie per ciascun giocatore. Tutte questioni che hanno fatto venire a galla una chiara insofferenza verso le regole, come se il serbo abbia compreso a pieno i privilegi dell’essere Djokovic, ma faccia spesso finta di dimenticare le responsabilità e l’impatto che le sue azioni possono avere su chi osserva.
Come se non bastasse il Covid-19, Djokovic ne ha combinate altre: la pallata (involontaria, ma da comunque da evitare) alla giudice di linea che gli è costata la squalifica allo Us Open 2020; il crollo emotivo delle Olimpiadi con forfait dalla finale per il bronzo del doppio misto, che ha negato alla sua compagna la chance di vincere una medaglia ai Giochi; e non ultima una foto in una cena di gala al tavolo con Mirolav Dodik e Milan Jolovic, due figure molto controverse a causa del loro coinvolgimento nel genocidio di Srebrenica, costato la vita a più di 8.000 bosniaci. Questioni che con uno degli atleti simbolo dello sport contemporaneo dovrebbero viaggiare su una linea parallela, e invece finiscono sempre più spesso per avere dei punti di contatto. Tanto da far pensare che Djokovic sarà sì ricordato come il tennista più forte di tutti, ma anche come uno dei campioni della racchetta più discussi e discutibili. E di certo uno dei più ingenui.