Una vita da mediano, un tennis tutto d’attacco, «perchè scambiare da fondo e a correre tanto non mi piace, quindi cerco di servire forte ed essere aggressivo». Lustri spesi a vagabondare fra Asia ed Europa, a navigare nei fondali bassi di tornei Future e Challenger, senza peraltro mai portarne a casa uno, frenato anche da un infortunio al ginocchio che quattro anni fa lo ha esiliato dal Tour per sei mesi. Insomma, uno che non avrebbe dovuto stare qui, non avrebbe dovuto disturbare i conducenti e che invece si giocherà la semifinale di un major. «Aslan è la nostra arma segreta», sogghigna il dostevskiano Medvedev, con la sua faccia da tenentino indisponente, ed è ovvio che Aslan spera di papparselo eventualmente in finale, una volta che avrà regolato i conti con Rublev e uno fra Nadal e Tsitsipas in semifinale.
Per qualcun altro invece Karatsev è il Limonov del tennis, un imbucato della storia, che prende quello che arriva con la leggerezza e il cinismo di chi non ha nulla da perdere. Proprio come il protagonista (reale) del bestseller di Emmanuelle Carriere. «Vincere il torneo? Cerco di non pensarci - ridacchia - gioco match dopo match, uno alla volta, vediamo cosa succede».
Karatsev è nato a Vladikavkaz, che sembra un nome inventato per definire un nonluogo sperso in un lembo dimenticato della cartina, invece è la capitale dell’Ossezia del Nord, o Alania, ai confini fra Russia e Georgia, ai piedi del Caucaso. Neve, monasteri, paesaggi fiabeschi, statue ieratiche di cosacchi, un’aria da romanzo alla Michele Strogoff.
Quando Aslan aveva 13 anni i Karatsev si sono trasferiti in Israele (la mamma di Aslan è ebrea); il suo primo maestro è stato Vladimir Rabinovich, a Tel Aviv, poi però mentre la mamma e la famiglia sono restati in Israele, Aslan con il padre è rientrato in Russia, a Taganrog - altro nome da serie tv con elfi e draghi… - e per lui è iniziato un carosello di allenatori sparsi fra Mosca (l’ex pro Tursunov), Germania («mi allenavo bene, ma non avevo la giusta mentalità»), Spagna e finalmente Bielorussia, a Minsk, dove lo segue da tre anni Yahor Yatsyk.
Sembrava un neutrino tennistico, polvere raccolta dal carro della giovane superpotenza rusky. Invece. Delle ultime 45 partite giocate ne ha perse appena 7, e quando gli hanno chiesto qualche mese fa quale pensava fosse il segreto della rinascita, dopo il lungo stop per l’infortunio, ha spiegato con parole molto zen: «Si può dire che ho smesso di pensare. Ho solo cercato di giocare ogni palla. È questo che mi ha aiutato a vincere». Contro Dimitrov non ha dovuto pensare troppo, visto che il bel Griga, dopo un primo set dominato e il secondo perso in lotta, dal terzo in poi non ha potuto fare granché, bloccato da un dolore alla schiena (2-6 6-4 6-1 6-2). Uno dei tanti, fra veri e immaginari, di questo Injurj open, dove Karatsev finora si è mosso con la grazia e la determinazione degli eroi inattesi.
Quella di Aslan, santo vagabondo del tennis, è una fiaba strana, prima o poi - pensano tutti - arriverà il cavaliere che lo ricaccerà al suo posto. Giovedì - con il pubblico di nuovo ammesso ai campi- , dovrà poi vedersela con il ba-bau numero 1, Novak Djokovic.
Ma per ora lo stregone è Karatsev.