Dopo Jack Draper anche Ben Shelton è stato costretto al ritiro. E a ogni chiamata del fisio da parte di Sinner, il cuore sobbalza

foto Ray Giubilo

C’era stato quel servizio, a Wimbledon, dopo due ore esatte di gioco, Grigor Dimitrov che fa ace e poi
si accascia sull’erba del Centre Court tenendosi la spalla. La destra. Non riesce nemmeno a respirare dal
dolore. Il primo ad accorrere è il suo avversario, sotto di due set, Jannik Sinner. Era stata la svolta del
torneo, che poi sappiamo com’è andato a finire. Quel momento ha scioccato tutti e ci ha detto quanto
siano comunque fragili anche i professionisti del tennis, soprattutto in questi ultimi anni, in cui si gioca
senza soste, in cui ci si sposta in lungo e in largo per il globo, in cui si tira sempre più forte. Ogni tanto
vado a vedere in rete come sta Grigor Dimitrov, uno dei tennisti con più classe nel circuito, con quel
rovescio a una mano che lo ha fatto paragonare a Roger Federer e non è un’esagerazione. Chi ama il
tennis ripensa spesso a quell’infortunio.

Ieri notte è successo qualcosa di simile. Meno grave – forse, si spera – l’infortunio toccato a Ben
Shelton alla fine del quarto set contro Adrian Mannarino
(che pare proprio stia vivendo una seconda
giovinezza). Anche in quel caso, un colpo di dritto, una smorfia e la mano destra che va a toccare la
spalla sinistra. Fisioterapista, Shelton prova a continuare, poi sarà papà Bryan, dall’angolo, a fargli segno
di fermarsi.

Dopo Jack Draper, ora Ben Shelton, considerati entrambi i potenziali terzi incomodi nella sfida Sinner-
Alcaraz (Holger Rune, sembra ormai essersi definitivamente smarrito), entrambi fuori dagli US Open
per infortunio. È la dura legge del tennis attuale, anche se c’è chi dice che alla fine non si gioca poi tanto
di più che nel passato. Forse. Di sicuro si gioca a velocità triple, quadruple.
E noi appassionati, lì, davanti agli schermi, sempre un po’ in ansia, a ogni smorfia, a ogni chiamata del fisioterapista, a ogni piccolo accenno di qualcosa che non va.