(*) “Avevo accompagnato un ragazzo a un torneo internazionale. Andò bene, così abbiamo iniziato a parlare del futuro. Gli ho chiesto quale fosse il suo sogno: mi disse che voleva vincere il prossimo torneo. Non mi andava bene. Lo stimolai, gli dissi di sognare, di non porsi nessun limite, di dirmi quello che voleva per davvero”. Forse Marcelo Gomez non aveva ascoltato “Sogna, Ragazzo, Sogna” di Roberta Vecchioni, ma ne aveva assimilato lo spirito. Ce l'aveva dentro di sé. Quel ragazzo si chiamava Juan Martin Del Potro. Persi i deboli freni inibitori, il giovane Juan Martin disse quello che pensava per davvero: “Io vorrei vincere...lo Us Open”. Quando quel sogno è diventato realtà, “El Negro” Gomez si trovava a Tandil. “Vedere Juan Martin alzare la coppa è stato il momento più bello della mia vita, secondo solo al matrimonio e alla nascita dei miei figli – racconta Gomez, il demiurgo del miracolo Tandil – quando l'ho visto salire in tribuna per abbracciare il suo team mi sono commosso. Non c'ero, ma era come se fossi insieme a loro”. E' vero: non esiste Juan Martin Del Potro senza Marcelo Gomez. Senza di lui, quel ragazzino alto e magro non sarebbe diventato uno dei più forti tennisti al mondo, portatore di simboli forti e sani: il talento, il riscatto, l'attaccamento alle proprie radici. Il 2016 ci ha ridato il Del Potro che conoscevamo. Non era affatto scontato, specie quando l'anno scorso erano uscite voci incontrollate su una possibile depressione, un possibile ritiro. Qualcuno pensava che le operazioni al polso avessero messo KO la sua anima, come un montante in pieno volto. E invece no, niente bandiere bianche. Anzi, Delpo si è attaccato a quella “blanca y azul” della sua Argentina e ha fatto le cose migliori con la maglia della nazionale. Prima l'argento olimpico, battendo Novak Djokovic e Rafael Nadal prima di perdere da Andy Murray. E poi la rivincita sullo stesso Murray in Coppa Davis, nel match chiave dell'intera serie tra Gran Bretagna e Argentina. Sarà lui, ancora una volta, a guidare l'albiceleste nella quinta finale della sua storia, all'Arena Zagreb, contro la Croazia di Marin Cilic e Ivo Karlovic. Se l'Argentina dovesse vincere, “Palito” diventerebbe una sorta di eroe nazionale. Lo conferma Federico Kotlar, inviato speciale del “Clarin”, il più importante (e venduto) quotidiano argentino. “Se ci limitiamo agli sportivi attuali, Del Potro è il secondo più popolare del paese, un gradino sotto a Lionel Messi. Si trova al livello di Emanuel Ginobili: pur essendo a fine carriera, 'Manu' è stato uno dei più grandi sportivi argentini di sempre. Se invece parliamo della storia, credo che Del Potro sia ancora leggermente sotto rispetto ai più grandi: Diego Maradona, Juan Manuel Fangio, Carlos Monzòn, Emanuel Ginobili e Guillermo Vilas. Se però dovesse vincere la Coppa Davis, che in Argentina è una questione storicamente irrisolta, credo che potrebbe entrare a pieno titolo in questa elite”. In questo momento, la popolarità di Del Potro travalica i confini dello sport, come ricorda Kotlar. “Non c'è dubbio che sia uno dei personaggi più popolari. E' molto difficile fare una classifica, ma è tra quelli che fanno più notizia, che generano attenzione”. Se è arrivato così in alto, Del Potro deve ringraziare Marcelo Gomez, certo, ma anche tanta casualità...e la voglia di prendere un aereo. Da bambino, il suo sport preferito era il calcio. In verità, lo è ancora oggi. Sgomitava nelle giovanili dell'Independiente Tandil e spadroneggiava anche lì, forte di una superiorità fisica imbarazzante. E' capitato più volte che gli chiedessero un documento d'identità, perché pensavano che fosse più grande dell'età dichiarata. Con la maglia “rojinegra” (rossonera) giocava con il numero 9, a volte l'11, a volte l'8, ma sempre da attaccante. Faceva il tipico centravanti-boa, un po' come Martin Palermo, leggenda del suo amat(issim)o Boca Juniors. Ma il Club Independiente non era soltanto calcio. E' un club polisportivo dove si abbracciano tante discipline. Costruito nel 1918, ospita campi di hockey, pallacanestro, pallavolo...e tennis. E così, per ingannare l'attesa prima di iniziare gli allenamenti pallonari, il piccolo Juan Martin prese una racchetta in mano e gli presentarono Marcelo Gomez. Fino ai 12 anni di età, ha praticato con uguale impegno sia il calcio che il tennis. La prima svolta è arrivata quando, nella stessa settimana, c'erano un torneo di calcio e uno di tennis: quest'ultimo era in Brasile. Più che la voglia di tennis, ebbe la meglio la curiosità di prendere il suo primo aereo. Accompagnato dal “Negro” si imbarcò, vinse il torneo e lo premiarono come miglior giocatore dell'America Latina. Ma per almeno altri due anni ha continuato con il calcio. Non ne voleva fare a meno, davvero. Rimaneva a scuola fino alle 14 (al Colegio San José ricordano ancora la sua disponibilità verso lo studio, anche se preferiva le materie letterarie e odiava la matematica), poi volava al club. Prima calcio, poi tennis. “I suoi genitori hanno sempre desiderato che avesse successo sia con lo sport che con lo studio” ricorda Gomez. In effetti, dopo l'infortunio al polso destro (il primo, quello che l'ha tenuto fermo per tutto il 2010) aveva ringraziato l'ostinazione di mamma Patricia, professoressa di letteratura, che aveva insistito per fargli prendere il diploma, sia pure studiando a distanza. Era uno sbocco, la possibilità di fare qualcos'altro. Papà Daniel, veterinario ed ex rugbista, spingeva di più per lo sport. Ben presto si capì che il talento era più nella mano che nei piedi.