Sinner, un cognome che porta con sé un facile gioco di parole, specie se la relazione è con Sua Santità papa Leone XIV. Il “nostro” biblista ne ricava un’esemplare e profonda riflessione

foto Felice Calabrò
Giorni di sbornia mediatica e tennistica: tra l’elezione di un nuovo Papa e le gesta di Jas, Jan e Muso agli Internazionali di tennis a Roma (che tennis meraviglioso sta sciorinando quest’ultimo, a tratti mi ricorda qualcuno…).
Ma certamente la cosa che più fa notizia, e che non può non interessare un biblista amante di tennis, è la predilezione di Papa Leone XIV per il nostro sport, manna per questa rubrica! Leone ha espresso la sua passione in campo da buon dilettante, e lo farà ancora, tempo permettendo… Ma lo ha fatto anche a parole. A una giornalista che gli chiedeva di organizzare una partita di tennis di beneficenza, proponendo di portare Agassi, ha replicato: “Ottimo, basta che non porti Sinner”, con arguto doppio senso giocato sul significato in inglese del cognome, “peccatore”. Il Direttore ha colto la palla al balzo e in conferenza stampa ha stimolato Jannik sul tema, facendolo arrossire.
Ed ecco ieri, a sorpresa, l’incontro tra i due in Vaticano. Tanti ne stanno scrivendo, con stupore e colore, notando tra l’altro quel legame tra tennis e spiritualità (biblica e non solo), di cui da anni ci divertiamo a parlare su queste colonne e non solo, con incursioni anche su quotidiani di orientamento cristiano. Personalmente, mi piace raccogliere l’assist di uno striscione mostrato al mondo sul Centrale di Roma da un tifoso: “We are all Sinners”, che sicuramente anche Leone condividerà. Pure qui trattasi di arguto gioco di parole: oltre a tifare per Sinner, siamo anche tutti peccatori. Ma in che senso?
Anzitutto, nello striscione era indicato il passo biblico di riferimento: Lettera ai Romani 3,23, citata con una certa libertà. Paolo di Tarso scrive infatti, a rigore: “Tutti hanno peccato”. Da intendersi non in senso moralistico o pessimistico, come magari ci è stato insegnato. No, è un’assunzione di realtà. Tutti siamo fallibili, sbagliamo, manchiamo il bersaglio, secondo l’etimologia ebraica del verbo biblico. Il tennis ce lo mostra implacabilmente, con l’Occhio di falco. Una pallina fuori dalla riga di un millimetro, e si può perdere una partita, addirittura una finale!
Dunque? Ascoltiamo il Maestro di Nazaret, caro a Leone: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Marco 2,17). Questa luminosa affermazione rischiara le nostre tenebre, se non ci isoliamo dalla realtà, magari in nome di fantasie religiose, ossia di idoli. Perché Gesù amava la compagnia dei peccatori pubblici, preferendola a quella dei pretesi impeccabili, dei “giusti incalliti”, scandalizzati da questa sua scelta fino a definirlo “amico di pubblicani e peccatori”? Perché sapeva che ogni umano è peccatore – se è vero che il giusto pecca sette volte al giorno, dice ancora la Bibbia… –, ma chi lo è in modo pubblicamente riconosciuto non può nascondersi. Ha perso il 15, punto! Così, spinto dal rimorso per l’errore, non ha nulla da perdere: può ricominciare, riconoscendo il proprio errore, la propria “malattia”, e disponendosi a invertire la rotta. Ovvero, ad accogliere il perdono preveniente di Dio e a cambiare comportamento.
Davvero, l’errore in cui cadiamo, così come ogni punto fallito, è la vera occasione per fare esperienza della nostra fallibilità e della misericordia preveniente di Dio, per chi ci crede. Non è mai tardi per aprire porte e finestre e lasciar entrare il fresco profumo di questa buona notizia. Ecco perché, come scriveva il grande Isacco di Ninive (VII secolo): “Colui che conosce i propri peccati, è più grande di colui che risuscita i morti”. O come si è tatuato sul braccio in inglese un vecchio leone del tennis, prossimo al ritiro: “Hai sempre provato. Hai sempre fallito. Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio” (Samuel Beckett). Un altro punto, un altro game, un’altra partita sta per iniziare…