A Parigi si rivedono quei colpi tanto efficaci quanto spettacolari, nonostante una superficie che – al contrario dell’erba – richiede una buona dose di istinto e sventatezza

Foto di Ray Giubilo

Parigi riaccoglie i suoi artisti, acrobati travestiti da tennisti. Ben Shelton contro Matteo Gigante incespica, ondeggia, si allunga in un tuffo gattonato ma efficace. E vince il punto. «Ero messo male con le gambe», confessa. «Per questo mi è uscito quel colpo».
Contro Alcarito, in compenso, si svita la spina dorsale per inventare un passante spalle alla rete, la palla apparentemente oltre il limite del giocabile, il polso che cigola, le cartilagini che gemono. Ma Carlitos glielo doma con una volée che pare un cavatappi tanto è fradicia di spin: Salta la rete, atterra, uno sbuffo a sinistra, a un millimetro dalla riga.
Alcaraz, come Bublik, sa anche organizzare volée telecinetiche: la racchetta lanciata che mantiene rotta e stabilità sufficiente a impattare la palla e ributtarla di là, beffardamente in campo, come guidata da una mano invisibile, dal braccio telescopico della mente. Peccato che non sia regolamentare. Elegante, magico, un gesto da illusionista. Ma illegale. Con un retrogusto d’ingiustizia: perché processare una magia?
I grandi tuffatori del passato: Nastase, Noah. Becker che atterrava sulla mano sinistra, gli occhi e la racchetta protese a intercettare la sfera, la coordinazione da ex portiere che si fidava dell’aria.
Un grande studioso francese delle immagini che le ha inseguite dall’antichità al Rinascimento, ha studiato il reincarnarsi del passo di una ninfa in quello di una serva di una corte europea, avrebbe apprezzato il volo orizzontale di Sara Bejlek nel torneo di qualificazione, fissato da Andre Ferreira, fotografo della federazione francese. Una mossa ninja, con il polso che scatta per assestare la rasoiata mentre i piedi esauriscono la spinta e tutto il peso del corpo si bilancia sul fragile polso della ragazzina ceca. Un esercizio di levitazione.
Poi Adriano Panatta. Era il 31 maggio del 1976, il famoso primo turno contro Pavel Hutcka, il tennista che cambiava mano a seconda del colpo. Veronica che Bolle lèvati, e tuffo sul passante incrociato. Matchpoint annullato.
A Roma tre settimane prima di matchpoint ne aveva cancellati 11 a Warwick, ma quello parigino è di una bellezza che toglie il fiato. Anche in finale, contro Vilas, era decollato, ma invertendo la sequenza che avrebbe sconfitto Hutcka: prima il tuffo, poi la Veronica. Chapeau. E tutto rigorosamente necessario, intendiamoci, estetica funzionale, pragmatica.
Sull’erba è più facile decollare, fidarsi dell’impatto vegetale (si dirà, erbaggio?), sulla terra, o sul cemento, ci vuole sventatezza, cuore, un filo d’incoscienza. «E’ l’istinto». ha spiegato Gael Monfils a L’Equipe, che lo interrogava sul tuffo ‘alla Superman’ del 2016 agli Us Open. «A chi osserva può sembrare un rischio eccessivo, superfluo. Ma io in quel momento penso solo che posso raggiungere la palla». Come hanno fatto, in tempi più recenti, anche Hurkacz, Rublev, Dimitrov. Sempre meno, con sempre meno gusto, perché l’utile ormai è sempre più scisso dal dilettevole, perché il tennis moderno tende a rinnegare il gioco, per salvaguardare il mestiere. Ma qui, a Parigi, quest’anno, gli acrobati stanno tornando.