LEGGI LA PRIMA PARTE
Lì venne fuori il Piatti con l’animo da imprenditore, che gli insegnamenti di quel padre aveva - più o meno consapevolmente - introiettato. Quanti benedirebbero un datore di lavoro che boccia il lavoro ma continua a stipendiare il lavoratore? Nel tennis, gli esempi abbondano tuttora; Piatti, semplicemente, rifiutò. «Ne parlai con mio padre. Eravamo d’accordo sul fatto che se investi per quattro anni su di me e i miei risultati non li gradisci, il calcio in culo devi darlo a me, non ai giocatori. Allora decisi di andarmene. Avevo amici che avrebbero potuto investire qualcosa per mandarci in giro. Poi trovai, a Moncalieri, le Pleiadi». Il giorno in cui iniziò ad allenare in mezzo alle nebbie torinesi, con quei quattro adolescenti spaesati ma uniti nella fede per il loro guru, nacque un fenomeno nuovo per l’Italia. Un gruppo con un allenatore e pochi giocatori, niente politica, niente posti fissi: si va sul mercato, se si guadagna si vive, sennò arrivederci. Pochi e coraggiosi sponsor si erano fatti avanti per coprire parte delle spese: Bredford, una scomparsa marca di abbigliamento sportivo che vestì Caratti con una agghiacciante polo
a macchia di vino nel trionfale torneo di Milano 1991 (il Kid di Acqui Terme perse in finale, dopo aver battuto Lendl negli ottavi); la torinese Kappa; e poi Dunlop, grazie all’interessamento di un ex serie A vercellese, il doppista Gianni Marchetti. Fu un momento storico, battezzato da qualche riga sulla cronaca torinese della Stampa. «Avevo con me dei ragazzi di 18 anni e non sapevo cosa fare. Andammo a Murcia, io cercavo di copiare dagli altri. Rimasi via per dieci settimane. Dopo due anni, avevo due giocatori nei primi cento: alla fine del 1990, Caratti era 90, Furlan 70». Nel 1991, Cristiano arrivò nei quarti di finale all’Open d’Australia col suo tennis strano e pettoruto, il rovescio piatto anticipato, i tic. Alla squadra si era unito anche Omar Camporese, il miglior italiano su piazza, che perse 14-12 al quinto contro Becker. Piatti era diventato il salvatore del tennis italiano: chi prima chi dopo, tre dei quattro boys (non ce la fece Ghigo Mordegan, pur dotatissimo) divennero titolari in Coppa Davis. «Quando Caratti arrivò al numero 26 del mondo, pensai di aver capito come si faceva. Errore enorme: lui era andato su in classifica perché aveva lavorato tanto ma non c’era un metodo. Infatti pagò la mia insicurezza». A dargli le più grandi soddisfazioni sarebbe stato Renzo Furlan: poca ciancia, tante gambe, testa super e bel rovescio, con i quarti di finale a Parigi 1995 e il numero 19 ATP. Nel mentre, un ragazzo scappato dalla guerra della ex Jugoslavia si era rifugiato a Moncalieri grazie all’interessamento di Ernesto Chioatero, detto Friki, figura nota nel tennis sabaudo. Portato via da un campo rifugiati, era così appassionato e testardo da essere migliorato al punto di poter fare da sparring partner agli allievi di Piatti. Giocava con le scarpe bucate, ora fa l’allenatore di Federer. Si chiamava Ivan Ljubicic ed è stata l’avventura più lunga e di maggior appagamento per Riccardo Piatti: dal niente all’essere il primo degli umani in classifica, dietro Federer e Nadal. «Tutto quello che so e che faccio con Roger, l’ho imparato da Riccardo», dice lui.
Alle undici del mattino di un giorno di dicembre 2018, Piatti è in campo con Borna Coric, numero 12 del ranking, pronto a lanciare l’assalto ai grandi tornei in questa stagione. Gli punta il manico di una racchetta all’altezza del fianco, prima che inizi il movimento del servizio. A bordo campo, il figlio di Luigi Bertino filma tutto, poi riguardano. «Non sarà perfetto ma non è male», si autoassolve Coric. «Hmm», taglia corto Piatti.
Bene non basta. Bisogna fare meglio. Riccardo non è la persona che chiameresti a condurre una televendita: ammaliare con le parole non è il suo forte. Ma è il meccanico da cui porteresti la tua automobile quando non parte, e non serve uno che ti racconti quanto sia importante l’amperaggio della batteria ma soltanto che te la aggiusti. Eppure lui, dopo l’esperienza con Raonic, si sentiva esaurito per quella funzione: «Milos è stato il progetto per cui ho più rimpianti: so che non piaceva, come giocatore, ma aveva un’efficacia clamorosa e poteva diventare numero uno del mondo. Alla fine del 2016 era numero tre, pronto per vincere qualcosa di importante. Invece l’anno dopo è stato catastrofico, il team non era unito e non lavorava correttamente. Con Gasquet, invece, zero rimpianti: ho fatto tutto quello che dovevo. Solo che gli chiedevo di prendere un fisioterapista, un preparatore e lui niente. Se corri dieci minuti al giorno, non puoi fare la maratona. Cercavo di spingerlo ma non ha mai voluto fare quel cambio. Comunque, dopo Raonic non volevo più essere il coach di giocatori
fatti».