Gian Marco Moroni ha sempre avuto grandi ambizioni che ora cominciano a concretizzarsi. Trasferitosi a Madrid, ha incontrato coach Oscar Burrieza, e da quel momento è cominciata una crescita perfino sorprendente per la rapidità con la quale sono arrivati risultati incoraggianti. La Spagna si conferma essere una scelta ottimale per i nostri giocatori e chissà che un giorno non gli tocchi di fare una telefonata a Diego Nargiso…
https://www.youtube.com/watch?v=t0Mq5_P2RmA
I tre anni a Bordighera, all’accademia di Riccardo Piatti, sono terminati all’improvviso lo scorso mese di febbraio, quando Gian Marco Moroni ha fatto una scelta di vita, trasferendosi a Madrid per raggiungere la sorella e trovando un coach di livello come l’ex top 150 Oscar Burrieza. Da allora ha vinto 24 partite in due mesi, scalando oltre 350 posizioni nel ranking mondiale. È finalmente arrivato il salto di qualità che Jimbo (lo chiamavano così perché da bambino portava i capelli a caschetto come il giovane Connors) si aspettava, finalmente in linea con le sue (enormi) ambizioni.

Com’è nata la decisione di trasferirti in Spagna?
Volevo andare a vivere con mia sorella. Siamo legatissimi ma negli ultimi cinque anni ci saremo visti giusto una settimana e non ce la facevo più. Lei insegna tennis all’Universidad Europea di Madrid.

Una scelta soltanto familiare o c’erano anche ragioni tecniche?
Ho avuto la fortuna di trovare due situazioni perfette: da una parte quella di poter stare vicino a mia sorella, dall’altra un coach come Oscar Burrieza, davvero un grande maestro. Sono stato decisamente fortunato. Il contatto è nato grazie a una serie di conoscenze: nell’ambiente dei coach c’è molta condivisione e io lo conoscevo perché aveva già seguito tanti ragazzi, con ottimi risultati. Inoltre è stato un tennista di buon livello: ricordo di averlo visto contro Kafelnikov sul centrale del torneo di Halle. È bello stare a contatto con un coach che è stato un ottimo giocatore: è in grado di raccontare tante cose.

Hai comunicato la tua scelta al team Piatti dopo la sconfitta al Futures di Paguera: come l’hanno presa?
Preferirei non parlarne troppo. Di certo non è stata una decisione dovuta a quella sconfitta, è stata una faccenda di natura più personale.

Sorella a parte, hai pensato che la Spagna è anche il paese del tuo idolo Rafa Nadal, e che in passato ha aiutato tanti altri giocatori italiani?
La Spagna è come la Francia e gli Stati Uniti: riescono sempre a produrre ottimi giocatori. Già questo è stato un buon incentivo. È vero che Nadal è il mio punto di riferimento, cerco di assomigliargli il più possibile, ma il suo esempio si può seguire ovunque: a Roma, a Bordighera, a Madrid. La crescita parte da dentro, non dal luogo in cui ti trovi. Aiuta stare a contatto con persone che hanno già raggiunto buoni risultati: è un vantaggio poter contare su Oscar, perché mi trasmette messaggi importanti e mi può indicare la strada giusta.

Anche se il cuore pulsante del tennis spagnolo si trova a Barcellona.
In effetti, tanti mi avevano sconsigliato di andare a Madrid. Mi dicevano che non era un buon posto per allenarsi, che non avrei trovato troppi giocatori di alto livello. Però, la ragione principale è stata mia sorella. Con lei accanto sono più tranquillo, inoltre ho meno problemi nell’organizzazione dei viaggi. Con le persone giuste accanto, riesco a dare il massimo, più di quanto avrei potuto fare a Barcellona. Ci sono tanti ottimi posti per allenarsi, ma è stata una scelta di cuore. Inoltre Madrid è una città splendida, il che non guasta, e ho trovato una sistemazione fantastica.

Come metodologia di allenamento, hai notato delle differenze tra Italia e Spagna?
Non così tante: la differenza è soprattutto nella mentalità. In Italia siamo molto attaccati al risultato, mentre loro pensano soprattutto a farti fare le cose giuste. Per gli spagnoli devi scendere in campo e fare quello che avevi preparato, al 300%. Se vinci è meglio, ma il risultato immediato passa in secondo piano. È questa la differenza principale.
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All’accademia di Bordighera potevi allenarti con alcuni top players come Milos Raonic, Borna Coric e tanti altri. A Madrid non sarà possibile: non è un peccato?
Mi alleno con gente di ottimo livello, professionisti del circuito con una buona classifica ATP. A volte condivido il campo con Javier Marti, altre ancora con Daniel Munoz de la Nava, senza dimenticare alcuni giovani tra i primi 500 ATP. Magari manca il top 50, ma sono tennisti veri. In allenamento vanno benissimo, perché quando ti alleni ciò che conta è fare le tue cose al meglio. Se il maestro ti dice di esercitarti sulla diagonale di dritto, l’importante è avere qualcuno che ti consenta di farlo. Ok, a Bordighera c’era Coric: lo vedevo da vicino e potevo imparare molto, ma anche dove mi alleno oggi capita di vedere grandi campioni come Fernando Verdasco e Feliciano Lopez: possono insegnarmi tanto perché hanno una grande esperienza.

Hai già pensato a come organizzarti sul piano logistico?
Sto talmente bene che non ci ho ancora pensato! Ovviamente mi mancano i miei genitori, gli amici e tanti aspetti di Roma. Tuttavia sto cercando di rifarmi una vita a Madrid e per adesso sto bene. Inoltre il tennis mi porta a viaggiare spesso e non ho avuto tempo per pensarci troppo. Per intenderci, questa intervista è la prima occasione in cui parlo italiano dopo parecchio tempo.

Il trasferimento in Spagna ti è servito anche per allontanare eventuali pressioni?
A quelle esterne non ho mai fatto caso. Ci possono stare, ma non hanno nulla a che vedere con quelle che può avere Nadal, che ha vinto per dieci volte a Parigi e deve riconfermarsi. Il problema principale ero io, ma credo di averlo risolto. Anzi, ne sono sicuro. Adesso sono molto più tranquillo, faccio le cose nel modo giusto e so che la strada che sto percorrendo è quella corretta. Non avverto particolari pressioni, sono totalmente concentrato su quello che devo fare, ma sarebbe lo stesso anche se mi trovassi ancora in Italia.

La tua routine quotidiana è cambiata molto?
Abbastanza, anche al di fuori del campo. Ora presto una grande attenzione ai dettagli. Faccio un esempio: al Challenger di Alicante ho giocato tre ore contro Balazs, eppure il giorno dopo, contro Cecchinato, ero totalmente a posto, senza nessuna scoria del match precedente. E anche durante i match-maratona non avverto particolare stanchezza. Mi sto prendendo cura del mio corpo, oltre a mantenere la testa tranquilla e aperta. Seguo la routine con diligenza, anche se a volte è utile staccare un po’. Tuttavia, da quando mi sono spostato a Madrid, mi sono sempre allenato. L’unica eccezione è stata il giorno dopo la vittoria a Reus, in cui mi sono trovato a casa, da solo. Mi sono svegliato, ho acceso la tivù e mi sono addormentato. Per adesso è stata l’unica eccezione.
Raonic ti aveva suggerito di lavorare su meno cose e di concentrarti sui tuoi punti di forza: stai provando a fare qualcosa del genere anche con Burrieza?
Sì, poche cose ma fatte bene, proprio come mi aveva detto Milos. Ricordo bene quel suggerimento, anche perché accetto consigli da tutti: che sia Raonic o un 4.5, è la stessa cosa. Ovviamente ascolto più volentieri un top 10 ATP, ma se arriva un buon consiglio lo tengo sempre in considerazione. Quello fu molto importante. Su cosa mi sto concentrando? Gioco da fondo, mobilità e altri dettagli.

Che tipo di persona è Burrieza e quali sensazioni ti sta trasmettendo?
Notevole tranquillità. È un grande appassionato di tennis, ama il suo lavoro e gli piace viaggiare. È molto carico, è un ganador. Poi è sempre allegro, una brava persona. Quando siamo insieme parliamo spesso di tennis, mi faccio raccontare più aneddoti possibili. In particolare mi interessa conoscere storie del passato, di quando giocava. Mi piace sapere come si sentiva prima o durante una partita, come quando ha sfidato Kafelnikov. Non capita tutti i giorni di giocare sul campo centrale di Halle. Tra me e lui si è stabilita una connessione molto efficace. Vorrei anche sottolineare che in alcune settimane vengo accompagnato da un altro maestro, Luis Zapata. È molto importante anche lui.

Durante i tornei, ti capita spesso di spegnere del tutto il cellulare, scelta ormai inusuale per un ragazzo di vent’anni.
Premetto che non uso di frequente i social network: per intenderci, vado su Facebook una volta al mese. I social portano via troppo tempo che invece preferisco usare per fare altre cose. Per esempio, adesso leggo molti più libri o magari guardo una partita di tennis. Anche se non è un match straordinario, può aiutarmi a capire alcuni aspetti del gioco. Prima, in effetti, stavo un’ora e fare su e giù con il pollice: la scelta di spegnere il telefono è nata dopo il torneo di Santiago del Cile perché, dopo che avevo vinto qualche match, mi avevano scritto moltissime persone e, per carattere, faccio fatica a non rispondere. Per questo ho preferito tenerlo spento e accenderlo solo alla sera, per sentire i miei genitori.

Non ti sei mai nascosto sulle ambizioni: vuoi arrivate molto, molto in alto.
Vero e penso di potercela fare. Credo di avere ottime qualità per raggiungere certi livelli e rimanerci. Dovesse mancarmi qualcosa, non è un problema: inizierò a lavorarci. Sono disposto a lavorare tantissimo per raggiungere certi traguardi e se ci saranno aspetti migliorabili nel mio gioco, mi impegnerò al massimo perché penso di avere le qualità necessarie.

Quando vedi gli altri NextGen che ti stanno avanti (Tsitsipas, Shapovalov, Auger Aliassime, De Minaur e altri ancora) ti sei chiesto come mai ci fosse questo divario?
Sì, soprattutto quando ho iniziato a lavorare in un certo modo. Tra i giovani il mio preferito è Alex De Minaur: l’ho visto in alcuni tornei e ho come l’impressione che abbia capito certe cose prima di me. È un lottatore, ricorda davvero Lleyton Hewitt, che peraltro mi piaceva moltissimo e aveva giocato anche contro Oscar.

Due anni fa, Diego Nargiso aveva detto che saresti entrato facilmente tra i top 20 del ranking mondiale. Un giorno gli farai una telefonata per dirgli che aveva ragione?
Nella vita può accadere di tutto ma sento che un giorno quella telefonata gliela farò, che potrà succedere. Magari mi faccio dare il suo numero e tra qualche anno vedremo. Se davvero ce la farò, potrei chiamarlo anche alle tre di notte per dirgli che ci aveva visto giusto!