Il modello italiano sta facendo scuola in tutto il mondo, compreso negli Stati Uniti

La massiccia presenza tricolore nelle fasi finali del recente torneo romano, non poteva che solleticare l’informazione oltre frontiera.
‘Nella crescita dei giovani talenti….’, riportava qualche giorno fa la pagina sportiva del New York Times,  ‘…l’Italia può considerarsi ormai fonte d’ispirazione per l’America e il resto del mondo’.

Un pensiero, quello di Mattew Futterman, giunto su di me con la forza di un ciclone. Un ritorno di impetuosa memoria ai miei viaggi esplorativi al di là dell’oceano, mossi dalla curiosità di scoprire se aria, acqua o cibo del Nuovo Mondo fossero complici dello strapotere tennistico pittato a stelle e strisce. Pendolando tra Nick Bollettieri e Harry Hoppman, John Newcombe e Vic Braden, Rick Maci e altri coach di fama minore, la smania di ficcare il naso nel modello statunitense non mi avrebbe portato al ritrovamento del Sacro Graal  ma quantomeno aveva ampliato di molto i piccoli orizzonti di me, giovane maestro, assetato di sapere. 
Così, sfogliando il quotidiano newyorkese, quel mattino  di metà settimana, finivo per vivere le lodi dello scrivente come una sorta di riscatto, seppure a scoppio ritardato,di cui godere a piene mani.

‘Negli ultimi anni..’, proseguiva l’informato giornalista, ‘.. la Federazione Italiana ha pensato bene di stimolare la crescita dei futuri pro creando una fitta rete di Futures e Challengers su tutto il territorio nazionale al preciso scopo di agevolarne il primo approccio con la  classifica mondiale senza, per questo dissanguare le risorse di famiglia con i costosi e ripetuti spostamenti richiesti dal circuito.

Ma l’articolo portava alla luce anche un certo malcontento, maturato all’interno della stessa USTA da personaggi illustri e addetti ai lavori. Particolarmente aspro era stato quello espresso da Josè Higueras lo scorso marzo circa il malfunzionamento dell’attuale settore junior di cui lui stesso era stato  responsabile dal 2008 al 2014. Senza tante perifrasi, l’ex coach di Roger Federer affermava che l’attuale management aveva  deviato dal percorso stabilito tagliando i fondi alla formazione e sperperandone altri tra  programmi inutili e sfarzosi ricevimenti. ‘Non bastasse…’, continuava il quotidiano americano, ‘a dispetto di meno risorse e di una popolazione equivalente al 20% di quella americana, il Bel Paese può vantare nove giocatori tra i primi cento, ivi incluso il campione del mondo in carica’.
Profezie che di lì a poco avrebbero preso corpo con la vittoria di Sinner su Tommy Paul è quella di Jasmine Paolini ai danni di Coco Gauff. Prestazioni che l’immaginario collettivo ha voluto talora interpretare come una sorta di confronto tra la piccola Italia dei giorni nostri e la sconfinata terra scoperta da Cristoforo Colombo.

Questioni di spazio devono aver precluso all’edotto reporter di focalizzare altri aspetti del nuovo rinascimento, stavolta in chiave squisitamente tennistica. Lo faccio io per completezza d’informazione. Solo per aggiungere che negli ultimi anni la Fit ha maturato l’idea di dare spazio ai privati utilizzando il Centro Tecnico nazionale di Tirrenia quale polo di  servizi finalizzato al coordinamento dei team e al riconoscimento di benefit secondo meriti acquisiti sul campo. Il resto è arrivato da quella globalizzazione che tra tante storture ha portato anche qualcosa di buono. Nel caso specifico ha contribuito alla diffusione di sofisticate metologie di allenamento ai quattro angoli della Terra, al punto che oggigiorno i giocatori possono nascere a Oslo piuttosto che a Roma o a Miami.
Per una lunga sfilza di circostanze, in questo periodo storico tocca a un piccolo Paese della Vecchia Europa fare da faro ai cultori di palla e racchetta e risultati alla mano non può che essere così. 

È in questa cornice che si è consumata l’ultima delle vicende Atlantiche tra le due sponde. Chiamata a dotarsi di una cittadinanza, Tyra Grant, giovane e valente tennista di padre statunitense e madre italiana, non ci ha pensato due volte e valutando pro e contro ha finito per guardare con giusti occhi al nuovo Eldorado del tennis mondiale non esitando a dichiararsi cittadina a tutti gli effetti del Vecchio Stivale. Una mossa sicuramente più lungimirante dei miei viaggi studio fatti al contrario e comunque ormai persi nel tempo. 
Nel mio caso, in  fuga c’era poco più che una racchetta in legno stagionato ,in questa ragazzina invece, sembra essere un buon cervello a voler cambiare aria.
Corsi e ricorsi storici, dunque, e che il Trump interplanetario non ce ne voglia.