
Aragone non aveva mai giocato le qualificazioni neanche a livello ATP, e sembrava già spacciato contro Marco Cecchinato. Invece gli è bastato un set per pagare lo scotto dell’esordio Slam, ha fatto pesare l’abitudine a quel cemento che nel campus di Charlottesville è stato il suo pane quotidiano per quattro anni, e la tensione è volata via. Dopotutto, cosa vuoi che sia un match di qualificazione per uno che solo tre mesi fa, in un palazzetto stracolmo di gente, ha chiuso la sua carriera universitaria vincendo il match che ha consegnato il quarto titolo NCAA in cinque anni ai suoi Cavaliers? L’ha spuntata al terzo set contro il siciliano, poi ha fatto lo stesso anche contro Riccardo Bellotti e al terzo turno ha fatto fuori, di nuovo in tre set, anche l’australiano-giapponese Akira Santillan, conquistando il main draw e la sfida con Kevin Anderson, uno che solo due anni fa a Flushing Meadows si guadagnava quarti di finale e top-10, battendo Andy Murray. La carriera di Aragone, invece, è solo all’inizio: il college è appena andato in archivio e solo da qualche mese ha iniziato ad affacciarsi al mondo "pro", dopo aver rifiutato un paio di profumate offerte di lavoro da parte di due note multinazionali. La qualificazione allo Us Open è un grande stimolo ad andare avanti, verso obiettivi ancora da scrivere. Magari non diventerà top-10 come sognava da bambino, ma con servizio e diritto può dimostrare che si può diventare tennisti di livello malgrado un passato travagliato per motivi di salute, e anche col diabete, malattia che non va troppo d’accordo con uno sport come il tennis, che richiede ore e ore di allenamento e sforzi fisici in grado di polverizzare ogni energia.

Tutto è iniziato nel gennaio del 2012, quando si trovava in Florida per un campus della USTA, pronto a partire per dei tornei juniores in Sudafrica. È stato ricoverato d’urgenza in ospedale per un’insufficienza renale e problemi al fegato, dovuti a una reazione allergica a un farmaco preso per curare l’acne. L’hanno portato direttamente in terapia intensiva e ci è rimasto per oltre un mese, un paio di settimane passate in coma farmacologico. La situazione era pericolosa: il suo sistema immunitario attaccava i suoi organi, così i medici sono dovuti intervenire con un potente bombardamento di steroidi. Con una degenza di oltre due mesi il problema è stato arginato, ma gli ha lasciato in eredita una patologia della pelle che per oltre un anno non gli permetteva di stare troppo al sole. Ha passato oltre sei mesi senza toccare racchetta, poi ha ripreso a piccoli passi. A causa degli steroidi la gente non lo riconosceva più, e come se non bastasse c’è stato presto un altro stop. Mentre era impegnato a Kalamazoo (Michigan) per un noto torneo nazionale giovanile, si è accorto che qualcosa non funzionava. Disidratazione, mal di testa, altri problemi in vista. Dopo aver vinto il match di secondo turno si è fatto portare in ospedale, dove gli hanno diagnosticato il diabete di tipo 1, il più delicato. In sintesi, il suo pancreas provato dalle cure precedenti ha smesso di produrre insulina. Soluzioni definitive? Ancora nessuna, così da allora convive con iniezioni quotidiane di insulina, più volte al giorno.

Tramite un piccolo sensore appiccicato nella zona dell’anca, e collegato via Bluetooth a un apparecchio, a ogni cambio campo "JC" controlla in tempo reale il livello di zucchero nel sangue. Una preoccupazione mica da ridere, visto tutti i pensieri che già frullano nella testa di un giocatore durante un match. Mentre gli altri pensano a tattica e palle-break, lui deve stare attento a ipoglicemia e iperglicemia, e intervenire con l’insulina quando capita che il valore scenda sotto la soglia d’allarme, oppure sia troppo alto. Un problema che allo Us Open diventa doppio: nel match con Cecchinato il giudice di sedia ha notato che si iniettava qualcosa, così gli hanno impedito di farlo da solo, invitandolo a chiedere l’intervento del medico ogni volta che ne abbia bisogno. Nel corso delle “quali” è capitato quattro o cinque volte, ma lui non fa drammi: “Non è così difficile da gestire – dice –, ma è comunque un problema che si aggiunge a tanti altri”. Nello sport professionistico ci sono stati alcuni casi di atlti diabetici, come l’ex velocista australiana Cathy Freeman o Paul Scholes, ex bandiera del Manchester United, ma i libri del tennis non ricordano giocatori diabetici di alto livello. Potrebbe arrivare lui, che nel 2007 vinceva lo Us Open Designated, torneo under 12 associato al Major newyorkese, ricevendo come premio dei biglietti del torneo vero e proprio e la possibilità di osservare da vicino i campioni. Dieci anni e un coma più tardi, sarà uno di loro. Con un occhio alla glicemia.