Le ultime cartucce di Andreas Seppi

Dal rapporto con coach Sartori a quello con papà Hugo, dalla scommessa lanciata da Alexander Vorhauser a quanto l’ha cambiato il matrimonio con Michela. Ottantadue minuti a cuore aperto con Andreas Seppi, per parlare di presente, passato e un futuro che (dice) difficilmente sarà nel tennis.
Intervista pubblicata sul numero di dicembre-gennaio della rivista Il Tennis Italiano

Per anni, Andreas Seppi è stato il crucco. In un’Italia che vive anche di luoghi comuni, uno cresciuto nel Südtirol deve per forza essere introverso, serio e dal cuore di ghiaccio. Come se nello statuto speciale che vige lassù, dove la Rai trasmette anche in tedesco e il Dolomiten vende più copie del Corsera, ci fossero persino delle leggi caratteriali. Stupidaggini. Seppi ha accettato i preconcetti, e per anni non ha fatto molto per scrollarseli di dosso, lottando anche con un tennis in cui la sostanza viene prima dell’apparenza, non proprio l’ideale se devi mostrare di saper emozionare. Ed emozionarti. Ma col tempo è maturato, è diventato uomo, si è sposato e si è lasciato andare, aprendosi e mostrando finalmente che introverso non lo è affatto. Serio certamente, ma nel senso buono del termine, ovvero di persona – stando al dizionario – che sa operare in modo onesto e con professionalità. O col talento del lavoro, quello che gli ha attribuito Massimo Sartori, incontrato la prima volta il 3 luglio 1995. Non se lo sono dimenticato quel giorno, né l’allievo né il coach. Al Tennis Club Caldaro puntavano a costruire un top 100, invece è venuto fuori addirittura un numero 18 del mondo, con tre titoli ATP in cassaforte, 50 Slam consecutivi giocati, una vittoria su Roger Federer e un’altra su Rafael Nadal. E poco importa se Wikipedia tra gli sportivi di maggiore successo dell’Alto Adige cita Gustav Thoeni, Reinhold Messner, Armin Zoeggeler e Carolina Kostner, dimenticandosi di lui. Per Seppi conta di più essere fra i primi dieci tennisti italiani (uomini) di tutti i tempi.

Tredicesima stagione di fila fra i top 100: come si riesce a stare in alto così a lungo?
Con continuità, un lavoro fatto bene alla base, prevenzione degli infortuni e tanto impegno. Bisogna avere sempre voglia di sacrificarsi, senza mai accontentarsi, e mentalmente bisogna essere pronti ad affrontare qualsiasi situazione. Non è facile. Per questo succede che alcuni giocatori giocano un paio di ottime stagioni e poi faticano nel confermarsi a certi livelli.

Non credi che negli anni ti sia stato riconosciuto meno di quanto meritassi?
La gente vuole il campione, perciò è abituata a ritenere normale tutto ciò che campione non è. Ma anche stare per anni al top è un grande risultato. In Italia manca il fenomeno, ma ci sono tante nazioni che non hanno avuto giocatori capaci di raggiungere i miei risultati, quelli di Fognini, Lorenzi o Bolelli. Magari in futuro il pubblico se ne renderà conto, e sentiremo dire che sarebbe bello avere un nuovo Seppi o un nuovo Fognini. È vero che abbiamo tanti giovani che giocano bene, ma lì davanti ci siamo sempre noi.

Cosa aveva un giovane Seppi che non hanno i nostri ventenni di oggi?
Alla loro età potevo stare lontano da casa anche per dieci settimane di fila senza problemi, mentre i giovani di oggi non vanno oltre le tre, quattro settimane. La continuità nel giocare certi tornei è fondamentale. Più uno gioca ad alti livelli, più cresce, prende il ritmo, si rende conto di cosa gli manca per arrivare. Restando sempre nei tornei Challenger è dura alzare il livello. Devo ringraziare Sartori che mi ha fatto giocare i tornei ATP anche quando non avevo la classifica adatta. Perdevo nelle qualificazioni? Pazienza. Rimanevo ad allenarmi tutta la settimana con i migliori. Bisogna provarci, anche a costo di perdere un anno di risultati. Che non è perso, ma investito per il futuro.

Quanto di ciò che hai ottenuto in carriera è merito di coach Massimo Sartori?
Tanto. Ho avuto la fortuna di trovare da ragazzino la persona giusta, diventata poi un secondo padre. Per il mio modo di intendere l’allenatore, è importante avere una figura che ti aiuti anche fuori dal campo, con cui parlare di qualsiasi cosa. Capita di vedere dei rapporti giocatore-coach limitati ad allenamenti e partita, ma non fanno per me. Noi ci siamo sempre aiutati a vicenda: lui ha imparato tante cose da me, e io da lui. E ha avuto il merito di non essersi mai limitato alle sue idee, cercando per esempio di collaborare con Riccardo Piatti per allargare i propri orizzonti, e questo ha fatto bene al nostro lavoro.

Ti sei mai chiesto come sarebbe andata senza di lui?
Non credo che sarei riuscito ad arrivare fino a qui. Magari avrei fatto il cantante.

Il cantante?
Sì, ci scherzo sempre con Max: «Se non fossi arrivato tu, col tuo tennis, oggi farei il cantante». In realtà non ho nessuna dote canora.
Andreas e Alexander Vorhauser
Si è parlato spesso del famoso progetto top 100 che Alexander Vorhauser, l’ex presidente del TC Caldaro, decise di lanciare: come andò di preciso?
Lui sognava di costruire un giocatore top 100 partendo dalla scuola tennis, e per farcela decise di puntare su Sartori come maestro. Stilarono un progetto e cercarono degli investitori che potessero finanziarlo, trovando al club alcune persone disponibili. Non è che ci abbiano mai dato dei soldi in mano, ma ci hanno aiutato con le spese dei campi e dei primi viaggi. Una situazione che ci ha dato tanta libertà, fondamentale per poterci programmare nel modo corretto. Per esempio, nel 2001 arrivammo in finale nel campionato di Serie B1, ma nel week-end della finale dovevo giocare le qualificazioni di un circuito Satellite. Malgrado un titolo che per il nostro piccolo circolo sarebbe stato un grande risultato, il presidente non ci impose nulla e ci disse di fare ciò che ritenevamo più utile. Andai a giocare il Satellite, anche se ci costò la sconfitta nella finale.

Se fossi nato in una grande città, la tua carriera oggi sarebbe diversa?
Probabilmente sì. È stato positivo crescere in un ambiente senza particolari distrazioni, come vivere sempre con la mia famiglia. Lasciare casa da piccolo sarebbe stato un problema.

Si ripete spesso che Fognini è il talento, Seppi il lavoratore, che Fognini è il bad boy, Seppi il bravo ragazzo: è così tutto vero?
I primi anni ci facevo caso, ora ho imparato a riderci sopra. Ci scherzo anche con Fabio. È normale che il pubblico e i media facciano paragoni, ma la questione non ci tocca più. Anzi, negli anni il mio rapporto con lui è migliorato moltissimo. La competizione c’è e ci deve sempre essere, ma stando spesso insieme, vivendo esperienze simili e maturando abbiamo capito che aveva poco senso farci la guerra.

Magari vi ha aiutato anche il clima della Coppa Davis, anche se per te non è sempre stato un momento felice. Sette anni dopo, come riassumeresti la scelta di rinunciare alla nazionale nel 2010 e nel 2011?
Erano anni delicati, eravamo nel Gruppo 1 e piovevano critiche a ogni match. In più, anche senza entrare nelle questioni economiche, secondo me c’erano parecchie situazioni poco corrette nei confronti di noi giocatori e una generale mancanza di regole. A me capitava di prendere tante colpe anche quando non c’entravo nulla. Nel 2007 abbiamo perso in Israele e la colpa me la sono presa io che ho perso in cinque set contro Sela, anche se a differenza degli altri avevo dato la mia disponibilità a scendere in campo, pur non sentendomi bene. Il mese dopo non mi hanno dato la wild card per gli Internazionali di Roma, preferendo Bracciali anche se io ero davanti in classifica. Mi ero stancato di passare sempre per il capro espiatorio, così ho chiesto di non giocare il match successivo col Lussemburgo, ad Alghero.

Ma...
Non me l’hanno permesso. Ero in una situazione molto difficile: stavo giocando male, ero uscito dai primi 100 ATP e rischiavo di non entrare nel main draw dello US Open. Data la mia situazione, e considerato che si giocava contro il Lussemburgo che aveva solo Gilles Muller che non era ai livelli di oggi (tanto che Andreas lo batté 6-1 6-1 6-4, ndr), avevo chiesto di non essere convocato, così da continuare a giocare sulla terra rossa. Ma non c’è stato verso. Mi sembrava incredibile che nonostante avessi bisogno di aiuto non me lo volessero dare. La situazione mi aveva fatto talmente arrabbiare che avevo promesso che sarei sceso in campo e mi sarei ritirato dopo un game. Poi non l’ho fatto, perché quando gioco ci tengo a far bene, ma la delusione era stata tanta.

Poi, nel 2010, c’è stata la rottura.
Avevo chiesto di nuovo di non giocare, per la sfida contro la Bielorussia a Castellaneta Marina, e di nuovo ero stato convocato. Due anni prima c’era stato il caso di Bolelli, che non aveva risposto alla convocazione, scatenando il finimondo. Così sono andato comunque in Puglia (al tempo disse che temeva delle ripercussioni, non solo su se stesso, ndr), dove c’è stata una riunione con Barazzutti e Palmieri. Mi hanno chiesto se veramente mi trovassi in una situazione di difficoltà, e dopo la mia conferma mi hanno lasciato tornare a casa. Era un periodo in cui giocare in nazionale mi pesava e non volevo compromettere la mia stagione.

Come mai la scelta di tornare, due anni dopo?
Perché la Davis è la Davis. A inizio carriera ho vissuto delle bellissime esperienze, poi era diventata un massacro. Fortunatamente, la situazione si calmò e io mi sentii più tranquillo e forte come persona. In più, a me la Davis serviva per giocare le Olimpiadi, mentre la squadra aveva bisogno di una mano per affrontare il World Group. All’inizio gli altri ragazzi non erano felici del mio ritorno, perché la Serie A l’avevano riconquistata loro, ma col tempo è tornata la serenità e si è creato un grande gruppo.
Onestamente, quanto manca alla fine della carriera di Andreas Seppi?
Fino a quando riesco a rimanere nei primi 100 del mondo vorrei continuare a giocare. Poi se arriva qualcosa di meglio ben venga, ma negli ultimi anni è diventato tutto molto più difficile dal punto di vista fisico. In allenamento non posso forzare come un tempo, per non sovraccaricare l’anca, e in campo certe differenze si sentono.

Inutile nascondere che il meglio è alle spalle.
Tornare nella top-20 non è un obiettivo reale, ma sento che il mio tennis non è diverso dai periodi migliori, anche se spesso non riesco a mettere insieme tutti i pezzi. Però se sto bene, e riesco a trovare un pizzico di continuità, non credo sia impossibile vincere quella decina di match in più che mi porterebbero di nuovo nella top-50.

Si è sempre detto che Seppi ha sfruttato il 100% del proprio potenziale: sei d’accordo?
Coach Sartori dice che avrei potuto fare ancora di più. Io invece non ho rimpianti, anche se potendo tornare indietro una cosa la cambierei.

Prego.
Sono sempre stato molto attento al mio corpo, ma mi sarei dovuto focalizzare ancora di più sul lavoro fisico, magari assumendo un fisioterapista personale, da portare con me tutto l’anno. Mi sarebbe anche piaciuto incontrare prima Dalibor Sirola (il preparatore atletico del suo miglior periodo, ndr), anche se non posso lamentarmi di quanto fatto prima del suo arrivo. Fisicamente ero allenatissimo, ma con lui ho cambiato gran parte della preparazione, con un metodo studiato per arrivare in campo sempre al top. Sono venuti fuori i miei tre anni migliori: 2012, 2013 e 2014. Col suo metodo sono riuscito a esprimermi molto meglio.

A una carriera come la tua manca un quarto di finale Slam. Ci sei andato vicino quattro volte, ma non ce l’hai mai fatta: ti pesa?
Al match-point contro Kyrgios in Australia (nel 2015, ndr) ci ho pensato qualche notte. Sarebbe stato meglio vincere quella sfida piuttosto che quella di quest’anno. Avevo battuto Federer al turno precedente e per come stavo giocando arrivare nei quarti sarebbe stato un risultato giusto. Anche a Parigi contro Djokovic, nel 2012, ero avanti due set a zero. Ma Djokovic è sempre Djokovic. Diciamo che mi accontento: i primi tempi negli Slam perdevo sempre fra primo e secondo turno, poi ho trovato una buona costanza.

Il sito ATP dice che, al netto delle tasse, hai incassato quasi nove milioni di dollari di soli montepremi. Ti sei fatto un’idea su come usarli?
Non sono un pazzo che li ha spesi tutti in automobili o cose strane. Sono cresciuto in una famiglia che mi ha insegnato a ragionare prima di spendere qualsiasi cifra ed è stata una bella fortuna. Per il momento i soldi guadagnati sono investiti bene, non ho fatto particolari danni. Poi a fine carriera si vedrà. Li userò sicuramente per costruirmi una famiglia, una bella casa. Cose normali.

Si diceva che a Fognini avrebbe fatto bene sposarsi, poi si è visto che è cambiato poco. A Seppi cosa ha dato il matrimonio?
Nuove responsabilità. Non posso più pensare soltanto a me stesso e a volte anche il tennis viene dopo la mia famiglia.

Cosa è cambiato con l’arrivo di tua moglie Michela nella tua vita?
Mi ha migliorato. Prima del suo arrivo, oltre a tornei e allenamenti non avevo molta voglia di fare altro, preferivo starmene a casa, anche da solo. Lei ha portato più vita nel mio mondo: adesso mi piace uscire, fare cose diverse nel tempo libero. E poi mi ha anche messo un po’ in ordine, tutti dicono che finalmente è arrivata una persona che riesce a farmi vestire decentemente (ride, ndr).

Anche la svolta social, che ti vede abbastanza attivo su Instagram, parte da lei? Non hai il rimpianto di aver mostrato un po’ tardi chi sei veramente?
Se avessi iniziato prima a condividere qualche aspetto della mia vita, la gente avrebbe capito prima che non sono affatto un ragazzo chiuso. Però in realtà mia moglie è abbastanza contraria perché dice che ci passo troppo tempo. Ma stando spesso lontano da casa, l’unico modo per stare in contatto con gli amici è il cellulare. Però sto imparando a controllarmi, a usarlo il meno possibile quando sono con lei. Per questo mi sono cancellato da Facebook: una distrazione in meno.

E anche tanti insulti in meno dopo le sconfitte?
A quelli ci pensa Instagram! Vittoria o sconfitta, c’è sempre qualche scommettitore infuriato che ci tiene a farti sapere cosa pensa di te. Al Challenger di Bratislava ho perso contro Jurgen Zopp: ci ho provato, ho dato il 100%, ma quel giorno il 100% era poco e ho perso comunque. Mi sono arrivati almeno venti messaggi: testa di c***o, co****ne, tua moglie è una t***a, ti spacco una gamba, spero tu muoia. Ora, già uno è arrabbiato per i fatti suoi... A volte vorrei rispondere, ma se inizi è finita. Meglio cancellare tutto, così non viene nemmeno la tentazione.
A proposito di scommesse: tre anni fa, quando esplose il caso Bracciali-Starace, il tuo nome finì sulla prima pagina della Gazzetta, solo perché venivi nominato in una conversazione intercettata. Come hai vissuto quei momenti?
È stato un duro colpo. Ricordo che ero a Mosca, e dovevo giocare i quarti di finale. Mi ha chiamato Sartori, alla mattina presto, spiegandomi cosa era successo e chiedendomi di vederci subito. Mi ha preso da parte e mi ha chiesto di dirgli quale fosse la verità. Gli ho giurato che con certe cose io non c’entravo nulla, e quindi ci siamo mossi per difenderci. Vedere il mio nome è stato uno choc, poi ho iniziato a ricevere telefonate su telefonate: è facile ripetere che sei estraneo a tutto, ma quando esce il tuo nome devi spiegare come mai sia finito lì. È stata una brutta situazione, ma è finita bene e in fretta.

Il caso doping della Errani è stato catalogato dall’ITF come involontario. Dato che sembra si sia trattato di una casualità, non viene il timore che possa succedere a tutti qualcosa di simile?
Io non ho mai avuto il sospetto di aver preso per sbaglio qualche farmaco che non potevo prendere. Se dovesse uscire qualcosa di simile sarebbe terribile, perché dopo un fatto simile la gente assocerà sempre la tua figura a quella di atleta dopato, indipendentemente da qualsiasi realtà venga accertata in seguito. Dobbiamo sempre stare attentissimi a qualsiasi farmaco prendiamo, anche i più banali. Per una stupidaggine si può rischiare tanto.

Come si fa a vedere per 15 anni le stesse facce, gli stessi hotel, gli stessi aeroporti, e non annoiarsi mai?
Per me l’unico problema sono gli spostamenti. Ogni volta partire da casa, farmi portare all’aeroporto da mio padre, aspettare, volare, farmi venire a prendere quando torno: una routine diventata un po’ pesante. Ma non appena arrivo ai tornei questa vita mi piace ancora tantissimo.

Hai citato papà Hugo, una figura quasi misteriosa. Si è sempre visto pochissimo.
È uno che parla poco, ma quando deve dire una cosa non ci gira intorno. Se vede che qualcosa non è fatto col giusto impegno ci mette poco a fartelo capire. È così ancora oggi, anche se ho 33 anni. Diciamo che col tempo ho imparato a rispondere un po’ di più (ride, ndr). Qualche settimana fa è venuto a vedermi al Challenger di Ortisei e non era contento di come giocavo. Mi ha detto che una volta spingevo di più, mentre ora butto solo la palla di là. Piuttosto diretto. Non è un padre super appassionato che segue i match sul livescore, ma se pensa qualcosa me lo dice con molta franchezza. Per me è sempre stata una cosa molto positiva.

Anni fa avevi detto di non sopportare Robin Soderling: ci sono nuovi Soderling nello spogliatoio?
Alcuni non ti salutano nemmeno se ti passano davanti tre volte. Succede spesso con i francesi, ma non c’è nessuno che proprio non sopporto. Vado d’accordo soprattutto con gli altri italiani, e con tedeschi e austriaci, per via della lingua. Difficilmente esco a cena con altri giocatori, italiani a parte, però il rapporto professionale è buono con tutti.

In questo fra circuito ATP e circuito WTA si dice ci sia una grande differenza, confermi?
Confermo. Noi uomini non abbiamo problemi a stare fra di noi, ad allenarci insieme e negli spogliatoi c’è un ottimo clima. Si ride e scherza sempre tutti insieme. Le donne invece non si allenano quasi mai l’una con l’altra, ma solo con il proprio coach o lo sparring partner. Così nei tornei combined occupano sempre il doppio dei campi e diventa più difficile trovare degli spazi per allenarsi.
Da protagonista del circuito, come hai vissuto questa stagione 2017 così particolare?
È stato un anno interessante, che ha dato a tanti giocatori delle nuove possibilità. È vero che i titoli più importanti li hanno vinti Federer e Nadal, ma le assenze di Djokovic, Murray, Wawrinka e altri ancora, hanno portato quattro nomi nuovi al Masters. E tanti altri ci sono andati vicino.

Il miglior Seppi poteva essere fra loro?
Ne ho parlato con Max. Secondo lui, se fossi stato nel mio periodo migliore, questo poteva essere un anno ricco di soddisfazioni. Come per il miglior Fognini. Se tutti questi infortuni fossero arrivati quando Fabio è stato numero 13 del mondo, anche lui si sarebbe giocato un posto al Masters. Non è un rimpianto, ma sono passate tante possibilità che negli anni scorsi non si erano mai viste. Pazienza.

Prima o poi la tua carriera giungerà al termine: il futuro ti spaventa?
Quando accadrà, sarà come finire una vita per cominciarne un’altra. Non credo che nel mio futuro ci sarà spazio per l’insegnamento: un coach deve essere disposto a stare a lungo lontano da casa e io ho giurato a mia moglie che non l’avrei fatto, altrimenti ci saremmo lasciati già tre anni fa. Lei è stata molto chiara: mi ha detto che se alla fine della mia carriera avessi deciso di viaggiare ancora, lei non ce l’avrebbe fatta. Quindi questa possibilità mi tocca scartarla (ride, ndr). Potrei lavorare in un centro con dei ragazzi, ma senza viaggiare con loro mi perderei la parte più bella. Invece penso che potrei ripartire da qualcosa di nuovo, imparare un mestiere dal principio, studiare, metterci energie e rimettermi in gioco in un mondo diverso.

E anche molto lontano…
Sono anni che mia moglie desidera trasferirsi negli Stati Uniti. Quando ci siamo conosciuti lei stava per partire per andare in America a studiare, ma non l’ha fatto perché continuare un rapporto a distanza sarebbe stato impossibile. Ci proviamo ora, insieme. Abbiamo chiesto la green card per trasferirci a Boulder, in Colorado, mezz’ora di macchina da Denver. Ci rimarrò fino all’inizio della nuova stagione: per ora è una sorta di prova, per scoprire com’è vivere da quelle parti. È un posto tranquillo, simile al nostro Alto Adige, e vorremmo gettare le basi lì. Staremo a vedere come evolverà la situazione. Nel frattempo svolgerò la preparazione, affidandomi alle strutture del college locale.

E con coach Sartori?
Col cavolo che viene in Colorado con me. Ma niente paura: ci ritroveremo a Doha per il primo torneo dell’anno nuovo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA