Giudicato dalla nostra Giuria tra i migliori racconti ricevuti, pubblichiamo il testo di David Carrozzo, giunto al 5° posto del nostro concorso letterario

foto Ray Giubilo

di David Carrozzo

“Insieme di infinite soluzioni all’interno di uno spazio finito”. Sembra un postulato di matematica, e invece altro non è che la mia definizione preferita di Tennis. Proprio come quella della scrittura, quest’arte mi anima perché si lascia manipolare dall’intima interpretazione del suo mestierante, generando nuove mutevoli forme di quell’arte stessa. Forme che, sebbene in perenne movimento, mai dimenticano l’essenza della loro natura.

Dovrei scrivere di quando mi sono innamorato del tennis, eppure la mia penna mi suggerisce una soluzione alquanto personale, che aggira il concetto rimanendo fedele allo spazio. Io voglio raccontare di quando è stato il tennis ad innamorarsi di me. La differenza è tanto sottile quanto determinante: nella mia situazione il sentimento non è reversibile. D’altra parte io potrei anche smettere di amarlo, proprio come farebbe Agassi in Open, ma questa entità al limite tra il concreto e l’astratto che è il tennis, non riuscirebbe mai a smettere di fare di tutto per affascinarmi, sedurmi, evocare un’emozione in me.

Lui funziona un po’ come un simbionte: dal primo momento in cui ci entri in contatto e scopre in te una natura compatibile, non ti molla più, ti rende dipendente, continua a inseguirti come fosse la tua dannazione, o forse benedizione.

In quel gennaio del 2012, pur di conquistare la mia di compatibilità, decise di manifestarsi con uno dei suoi più (di)struggenti capolavori teatrali della storia, capace di mutare ancora una volta la forma della sua arte stessa. Immaginate un bambino di 11 anni e con nulla a che fare con la racchetta, attratto da un misto di turbamento e sorpresa verso un orologio che segna oltre 5 ore e due protagonisti intenti a stravolgere la concezione di “sport”, andando oltre l’oltre. Ci ho messo anni a comprendere tennisticamente quel match, ma un solo attimo a decidere di rimanere seduto e assistere a quel perfetto mix di brutale azione violenta all’interno di un’atmosfera di totale tranquillità. Del tutto ignaro di cosa mi stesse trasportando, l’intenzione era quantomeno vedere a quale minuto si sarebbe fermato il tempo e chi dei due sarebbe riuscito a prevalere e superarsi prima di collassare.

I momenti di quella partita hanno lasciato un solco dentro di me, un segno indelebile. È come se in quei frangenti avessi scoperto, senza comprendere, qualcosa a cui in realtà appartenevo da sempre.

Più che farmi innamorare, quel giorno il tennis mi ha rapito. Si è preso una parte di me, per rendersi lui parte integrante di David.

Perché, vedete, quel giorno quel bambino non ha trovato nient’altro che una sua trasposizione, il riflesso di se stesso. Una visione.

Mi è capitato spesso di pensare a cosa abbia rappresentato per me quello spezzone di finale: l’accesso a qualcosa di tanto ignoto quanto familiare.

Se ancora oggi guardo il tennis con gli stessi occhi di quel bambino, è perché lui non ha mai smesso di stupirmi.

E se il Tennis è Narnia, io quel giorno ho incontrato il mio Armadio.