Giudicato dalla nostra Giuria tra i migliori racconti ricevuti, pubblichiamo il testo di Ottavia Sanseverino, giunto al 2° posto del nostro concorso letterario

foto Patrick Nguyen – unsplash

di Ottavia Sanseverino

Era sicuramente una domenica di sole. Estate, forse primavera, una di quelle domeniche calde, ma non asfissianti, quelle che ti invogliano ad uscire fuori e camminare. E noi, figli degli Anni 80 e di genitori trapiantati dal Sud Italia, con una sola macchina e una mamma senza patente, di camminate ne facevamo tante, praticamente ogni giorno.

Rientravamo dai giardinetti, all’ora in cui le famiglie perbene, come mia nonna non mancava mai di sottolineare, rientravano dalla messa. All’improvviso, tra i pigri rumori della domenica, un suono attirò la mia attenzione: era un suono nuovo, ritmico, musicale, pieno, ma veloce. Bello. Ipnotico, come un tamburo atavico. Perfetto e finito, come un cerchio. Non portava ad un altro suono, ma solo al suo ripetersi, cadenzato, come un metronomo. Fu più forte di me, fu istintivo: mi voltai verso il rumore, tirai la mano del mio babbo e mi avvicinai alla rete da cui proveniva. Una pallina, ecco cos’era a fare quel rumore. Una pallina, che rimbalzava sulla terra rossa e colpiva una racchetta. Due uomini adulti che facevano quello che in genere fanno i bambini: giocavano. E sembrava un gioco bellissimo. 

L’attimo magico, fu, appunto, un attimo. Mio padre, vedendo cosa mi attirava, mi spiegò in poche, semplici parole, che quel gioco non era per me “Quello è tennis, è un gioco per ricchi”. Ferale e definitivo. Perché, anche se avevo sei anni e nessuno in casa lo avrebbe mai ammesso apertamente, io lo sapevo: non eravamo ricchi, casomai il contrario.

Vorrei poter raccontare di come ho lottato, fin da bambina, per convincere mio padre che quella era la mia strada, per diventare una di quelle che poi, un giorno, dichiarano fiere ai microfoni “ringrazio i miei genitori per i sacrifici che hanno fatto per farmi arrivare fin qui”, ma, ahimè, la storia è andata diversamente. Semplicemente, per me, il tennis è rimasto negli anni come uno di quei ragazzi fighissimi del liceo, che guardi da lontano, ma a cui non hai il coraggio di rivolgere la parola perché no, non fa per te, sei sfigata, ti riderebbe in faccia. E allora l’ho osservato, seguito, sognando come sarebbe stato se… e maledicendo il destino che non mi aveva dato un babbo agiato con l’hobby del tennis, da tramandare di generazione in generazione. No, il mio come hobby curava l’orto, altro tipo di terra, nessun suono magico.

Poi, proprio come a volte accade con il figo del liceo, un giorno te lo trovi davanti, da adulta. Sei cresciuta, sei sposata, sei consapevole e finalmente trovi il coraggio e ci parli: “Ciao, ti ricordi di me? Eravamo a scuola insieme, non penso tu mi abbia mai visto, ti va un caffè?”. E così, ormai oltre la dignitosa soglia dei 40, finalmente, ho impugnato una racchetta e ho colpito la mia prima pallina di dritto. No, non ha fatto quel suono magico, ovviamente l’ho steccata. Però ho avuto la conferma: avrebbe potuto essere un grande amore. Fa niente, sarà l’amore della mia vecchiaia, perché sicuramente, da qui in avanti, non ne farò più a meno.