Sta finendo un’epoca che si aggrappa a Novak Djokovic, prima di lasciare spazio alle novità

È l’ultimo dei Fantastici quattro, anche se forse sarebbe più corretto – per continuità e risultati – parlare piuttosto dei Tre moschettieri. Oggi, anche per chi è sempre stato più dalla parte di Roger Federer o di Rafael Nadal, Novak Djokovic è il filo che ci lega a quel periodo d’oro del tennis. E chi ha una certa età, lo sa bene. Sa che dopo il piacere, le passioni, la bellezza che un campione ti fa vivere per anni, spesso per più di una decina di anni, quando quel campione (o quei campioni) smettono, non percepisci soltanto il vuoto che lasciano, ma anche lo scorrere del tempo. Non te ne eri reso conto prima, perché quello scorrimento era riempito dalle loro imprese, dalle vittorie, da partite memorabili. Nemmeno ti accorgervi che intanto Nadal stava perdendo i capelli, o che il viso di Federer aveva qua e là qualche ruga in più. È rimasto il terzo, Djokovic. E anche se, almeno per me, non era proprio il preferito (quanto brucia, ancora, la sua vittoria a Wimbledon nel 2019, contro Federer), oggi rappresenta l’ultimo legame con quel periodo, iniziato quando eravamo ancora giovani, più di venti di anni fa. Guardiamo giocare Djokovic, e il tempo è come se si fosse fermato, anche senza gli altri due. È un legame sempre più fragile, pieno di acciacchi. Ormai lo sappiamo, ogni volta che Novak Djokovic scende in campo, è cosa certa che prima o dopo in quello stesso campo scenderà anche il fisioterapista. Per questo poi è bello vederlo vincere e usare la sua racchetta come fosse uno Stradivari. È diventato la nostra clessidra, Djokovic, è l’album dei ricordi che ha ancora qualche pagina da riempire, ma che fra poco finirà sullo
scaffale, accanto a quelli dei decenni precedenti, iniziati, per chi ha più o meno gli anni miei, con le foto di Borg, di Nastase, di Panatta. Intanto abbiamo però l’album nuovo, e sono già tante le pagine riempite da Jannik Sinner, Lorenzo Musetti, Matteo Berrettini. Anche perché, alla fine, una cosa è certa: la passione mantiene giovani. Almeno così dicono.
Roberto Ferrucci è nato a Venezia (Marghera) nel 1960. Ha esordito nel 1993 con il romanzo “Terra rossa”, pubblicato da Transeuropa, e in quegli anni ha scritto spesso per “Il Tennis Italiano”. Il suo ultimo libro “Il mondo che ha fatto”, che racconta la sua amicizia con lo scrittore Daniele Del Giudice, è stato pubblicato nel 2025 da La nave di Teseo e candidato da Claudio Magris al Premio Strega. Scrive per i quotidiani di Nordest Multimedia e su La Lettura del “Corriere della Sera”. Dal 2002 insegna Scrittura creativa alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova, conduce laboratori di scrittura in Italia e Francia. Per Helvetia Editrice dirige la collana “Taccuini d’autore”.

