Riccardo Piatti: "è la sana ossessione che mi fa riconoscere un talento"

Come riconoscere un talento e come gestirlo... ce lo spiega coach Riccardo Piatti attraverso le sue esperienze con Djokovic, Raonic, Sinner e Camporese

Foto Ray Giubilo

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La tragedia di Kobe Bryant ha scioccato tutti. Ci ho ripensato, ascoltando il commovente ricordo di Michael Jordan, che con Kobe aveva rapporto da fratello maggiore. Bryant era ossessionato dall’idea di migliorare: come giocatore, come persona, come padre. Chiamava Jordan alle 3 di notte, lo bombardava di messaggi. Una volta gli chiese: «devo migliorare il movimento dei piedi di mia figlia. Alla sua età, 12 anni, tu come lo gestivi?». «Mi dispiace, fratello, non ti posso aiutare - rispose ‘Air’ - io a 12 anni giocavo a baseball…». Jordan ci ricorda come dobbiamo sempre rispettare i tempi del processo di crescita, che variano da sport a sport e da persona a persona. Un esempio? Coco Gauff a 14 anni è già una donna, Sinner alla stessa età era un bambino alto un metro e 60.

Come si riconosce, allora, un talento? I grandi campioni spesso sono guidati da un’ossessione simile a quella di Bryant. L’importante è capire, parlando con i genitori, se è un’ossessione che viene dal ragazzo o se gli è imposta da fuori. Le due cose che mi hanno colpito di Djokovic, la prima volta che l’ho visto, sono state la sua straordinaria capacità motoria e il fatto che parlava e ragionava da adulto. Sapeva già come controllare la mente: la sua e quella degli altri. Chi fin da piccolo ha una personalità molto forte, del resto, da grande probabilmente farà la differenza. E a volte ha più bisogno di informazioni che di steccati. Le regole, intendiamoci, mi stanno bene, ma non si può sempre mettere ‘in castigo’ chi va sopra le righe. Quando vedo certi comportamenti di Medvedev penso che abbia dei problemi, certo; ma anche che ci stia lavorando su, visto che la moglie del suo coach Gilles Cervara è una mental coach.

Qualcosa di simile mi è capitato con Raonic. Milos in campo era molto duro con il team (a me però si rivolgeva in serbo, così non capivo…) ma una volta fuori era il primo ad ammettere che sotto stress non riusciva a controllarsi. Anche questo è un processo delicato, i ragazzi imparano con il tempo a conoscersi. Il tennis, lo dico sempre, deve rimanere un Gioco, nel senso però che intende Julio Velasco quando sostiene che i bambini che giocano con il lego sono serissimi: perché sono concentrati a divertirsi. E qui torniamo all’ossessione di Kobe per il movimento dei piedi. Insomma, educare un talento non è facile. Come dice il mio amico Xavier Duarte, puoi ragionare con la testa o con il cuore, ma se ragioni con il cuore spesso fai casino.

Da giovane ci sono cascato anch’io. Ad esempio con Camporese: Omar era un grande giocatore ma più complesso da gestire, e con lui ho scelto spesso la soluzione più comoda. Per questo adesso cerco di ragionare con la testa, trovando le persone giuste che possono aiutarmi a crescere i miei giocatori. E accettando che i miei maestri a Bordighera sbaglino, ma non che ripetano sempre gli stessi errori. Con l’esperienza di oggi, Camporese l’avrei fatto diventare un top 10. Scusami, Omar, se con te ho usato troppo il cuore".

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